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Ricordo di Piero Santi

Mi capita spesso in questi giorni di pensare a Piero Santi, alle giornate trascorse nella sua casa all’Erta Canina, alle lunghe chiacchierate passeggiando per le vie di Firenze, la città che tanto amava e di cui soffriva la progressiva trasformazione. Ricordo le cene in compagnia degli amici: i fiorentini, più assidui, e gli altri che raggiungevano quel luogo ospitale provenienti da ogni parte d’Italia. Lo vedo sorridente nella sua poltrona accanto alla finestra, soddisfatto della visita dell’amico, della vista degli ulivi, sul colle che da piazzale Michelangelo digrada dolcemente verso l’Arno. In quella casa era ancora possibile, in quegli anni Ottanta che già lasciavano intravedere il precipizio di indifferenza in cui saremmo a breve precipitati, parlare di letteratura con passione vera e mal contenuta eccitazione, senza lasciarsi condizionare da mode critiche e dalla ricerca a tutti i costi di apprezzamenti e consensi.

Piero Santi all’Antico Fattore, tra Sandro Penna e Carlo Emilio Gadda
Di Piero Santi ricorre oggi il centenario della nascita, ma non se ne ricorderà credo nessuno. Era nato a Volterra, il 5 aprile del 1912, e la sua famiglia si era trasferita presto, lui ancora bambino, a Firenze, la città che avrebbe poi rappresentato, insieme alla Versilia, il paesaggio ideale delle sue opere.
Santi è stato tra i protagonisti di una delle stagioni culturali più intense e vive di Firenze. Negli anni che immediatamente precedettero il secondo conflitto mondiale, a Firenze si era formato, scrive Alessandro Parronchi in un intervento del 1976, un particolare e vivace ambiente letterario, “di cui proprio Santi costituì il centro di gravitazione”. Erano in quegli anni a Firenze Eugenio Montale, che fino al ’38 sarà direttore del Gabinetto Vieusseux, Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Romano Bilenchi, Franco Fortini, e poi Palazzeschi e Cancogni, Carlo Cassola, Luzi e Delfini e ci vivrà, negli anni della guerra, Umberto Saba. Saranno in compagnia di Piero Santi, prima e dopo gli anni bui del conflitto, a cena spesso all’Antico Fattore, storica trattoria di via Lambertesca, gli amici Gadda e Landolfi, che Santi ricorderà nel romanzo Il sapore della menta, forse il suo maggiore successo letterario, pubblicato da Vallecchi nel 1963.
Santi, il cui primo libro Amici per le vie risale al 1939, era uno scrittore rispettoso della tradizione ma capace di grande modernità. Costruiva le sue opere spesso combinando e impastando cronaca e autobiografia, racconto e riflessione. Valgano ad esempio, oltre al già citato Il sapore della menta, il Ritratto di Rosai (De Donato, 1966), che è anche il resoconto dell’amicizia che legò Santi al pittore fiorentino, le vicende dell’alluvione di Firenze ricordate in Da un tetto e nelle strade (De Donato, 1967), la testimonianza diaristica confluita nel volume La sfida dei giorni (Vallecchi, 1968), una raccolta di pagine di grande intensità, che costituirebbero ancora oggi una lettura fondamentale per comprendere i processi culturali e sociali che precedettero e fecero seguito alla seconda guerra mondiale, e quello straordinario libro che è Ombre rosse (Vallecchi, 1954), in cui i cinema di Firenze diventano oggetto ed essi stessi in qualche modo protagonisti di una narrazione che sonda il mistero e la semplicità degli uomini, che nel buio delle sale cinematografiche si mostrano più veri o forse solo più tesi alla ricerca della propria verità.
Santi con Aldo Palazzeschi

Così, a Napoli – scrive Santi in Ombre Rosse, il garzoncello che entra, un poco impaurito, per la prima volta solo, al “Sannazzaro” e poi sfiora i muri cieco in mezzo al pallore rosso della sala, ombra rossa lui stesso: e ode la voce improvvisa di qualcuno che gli indica un posto e gli parla a bassa voce: quel ragazzo non avrà avvertito qualcosa che prima era chiuso dentro di lui come in una valva intangibile? Si accorge, è certo, che la vita non è solo chiarezza e evidenza: che vi è bensì qualcosa di inafferrabile e di imprevedibile. Che al di là degli oggetti che ci circondano, oltre i nostri gesti stessi che crediamo di compiere in piena coscienza, qualcosa si avvolge, che è oscuro e segreto.

Cosa ha fatto in modo che Santi venisse relegato a un ruolo marginale e poi dimenticato già prima della morte, avvenuta nel 1990? Non fu d’aiuto certo la sua omosessualità, sempre dichiarata, sia pure senza esibizione e compiacimento. Né dovette giovargli essere più attento al giudizio e all’affetto degli amici che alla valutazione dei critici. Non badò molto agli interessi editoriali e gli mancò insomma la capacità di proporsi, di costruire di sé un’immagine accattivante, soprattutto se questo doveva costargli la rinuncia anche a una minima parte delle sue convinzioni. La superficialità che si è poi impadronita anche del mondo della letteratura ha fatto il resto. E pensare che Carlo Bo aveva scritto in occasione della pubblicazione del Diario nel 1950: “Se un libro come questo fosse stato presentato all’estero, il fatto Santi sarebbe diventato tipico del nostro tempo, si può essere certi che in breve ne avrebbero fatto un testimonio simbolico e leggendario dei nostri giorni”.
Ma appunto Piero Santi non era nato in un altro paese e ora che di testimoni non abbiamo più bisogno, tantomeno leggendari e simbolici, di lui e della sua opera si può trovare traccia solo nella memoria degli amici, dei suoi libri si può andare in cerca, ad averne voglia, nei polverosi fondi di magazzino di qualche antica casa editrice.

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