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I versi sornioni di Grattacaso sul mondo, il tempo e l’uomo

di Davide Morganti

 

Chissà cosa ci facciamo noi nell’universo e mica solo noi, pure gli animali, i vegetali, i minerali e l’aria; e il tempo a chi appartiene? Quanto ce n’è nel mondo? Tanto, troppo, ovunque, diverso.

Giuseppe Grattacaso, salernitano, docente a Pistoia, nel suo ultimo libro (Il mondo che farà, Elliot, pagg. 105, euro 14.50) scava nelle cose con una lingua ora puntuta ora levigata, a tratti sembra prosa irriverente, in altri svela il suo carattere lirico. “Di sicuro un difetto, una trama malmessa / un certo giorno sposterà di un tanto / l’asse del mondo, in bilico da sempre / da sempre in alterata inclinazione”, scrive Grattacaso, esprimendo il senso di precaria stabilità del nostro stare sulla terra; il tempo che sfibra pure le foglie di una verdura, non sta mai quieto, non procede secondo gli orologi ma secondo un disordine che ci sfugge.

“Il mondo è niente, / nemmeno le macerie, non c’è aria, / manca di tutto, sarebbe già qualcosa / la polvere, allora me ne vado, / ma in quale luogo, se non c’è esistenza / non c’è nessun approdo, resto fermo, / e immobile mi sento quasi eterno”. Immobilità ed eterno, ossimori? Forse. O coincidenze, probabile.

Grattacaso si pone domande, i suoi versi talvolta sembrano ridere beffardi, una risata forte, a tratti fortissima che esplode e produce un rumore malinconico; il poeta salernitano si sofferma sulle origini del mondo ma non con piglio scientifico, piuttosto con ilare compostezza. “Durerà venti forse venticinque / milioni di anni, se teniamo il passo, / il viaggio che ci porta ancora a terra, / se non accade nello spostamento / che noi invecchiamo troppo o che il pianeta / per ora uguale a noi, cambi d’aspetto”.

C’è, in questa amara scansione, una sorta di empatia col mondo, un destino comune, una relazione umana che leopardianamente conforta chi vive la stessa condizione, per quanto noi siamo messi peggio, visto che ci ostiniamo a credere che il sole ogni mattina sorga per osservarci con invidia. E’ una lettura che pagina dopo pagina, martella, insiste, poi improvvisamente divaga, i versi raccontano il presente di ogni tempo, non si limitano a dire, piuttosto sono una sorta do clangore metallico, come se, leggendoli, andassimo a sbattere contro una saracinesca. Qui ascoltate, più che leggere: “Ciò dimostra / che la fine del mondo è ricorrente, / un programma seriale replicato / con ciclica frequenza nei millenni, / previsto d’abitudine con cieca / sollecitudine forse da nessuno / che ne abbia contezza”, siamo dentro una pantomima del soon finish, dell’apocalisse isterica, del Fine delle trasmissioni come si faceva negli anni Settanta quando i programmi televisivi terminavano a sera tarda.

Grattacaso racconta il malessere dell’esistere, il costante stato dell’allarme e di trepida attesa – alla vita, come la morte, non si sfugge. La poesia mantiene toni direi scanzonati, nel senso che fa a meno di pose e ricercate vanità formali. “Crediamo allineato l’universo, / in scambio vicendevole l’immenso / paesaggio di galassie con l’insetto”, ecco l’ironia di Grattacaso che racchiude anche la teoria dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande e le liason tra visibile e invisibile, siamo tutti in relazione e nulla ci è estraneo.

“Se difetta materia / che giustifichi il confine, / manca il confine e dunque manca l’oltre”, splendido questo “manca l’oltre”, perché l’uomo ha bisogno del confine per comprendere i suoi passaggi, i suoi cambiamenti e Grattacaso, con versi sornioni, ci rivela che il mondo tutto sommato sopporta il tempo, sopporta l’uomo per un equivoco: quello di credere che la fine riguarderà sia noi che la terra allo stesso modo.

Il Mattino (di Salerno), 10 marzo 2019

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