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Uno splendido violino per un clown tragico

Angelo Maria Ripellino, Lo splendido violino verde, a cura di Umberto Brunetti (Artemide)

È lo stesso Ripellino a dare le coordinate e spargere tracce per costruire quella che potrebbe rivelarsi una sincera quanto velata dichiarazione di poetica. Nei versi che aprono la seconda, e ultima, sezione di Lo splendido violino verde, raccolta del 1976, ora nuovamente pubblicata, per i tipi di Artemide, in una ricercata edizione critica, curata da Umberto Brunetti e impreziosita da due scritti, a inizio e a fine volume, rispettivamente di Corrado Bologna e Alessandro Fo, l’io lirico, immediatamente autobiografico, dichiara: “Su questo magico violino verde / vorrei ancora sonare, se le mani / non brancolassero”. Il poeta si propone di indossare “tuttavia il vecchio frac”, chiedendo alla claque che “con i suoi applausi nasconda / le stecche e le stonature”. La musica della poesia non può dissimulare i difetti prodotti dall’età incalzante, resa più offensiva dal procedere della malattia, che nel caso di Ripellino si manifesta nei postumi di una giovanile tubercolosi mal curata e nelle complicazioni prodotte dal più recente diabete. Né d’altra parte i versi possono rendere sopportabili i mali del mondo: “O vita confusionale, / o barcollante baraonda / di piatti e alloppiati fantasmi, / di angeli falsi, o imposture / da Puvis de Chavanne”. Il poeta musicista continuerà allora a suonare “lo splendido violino verde / finché le mani ce la faranno”, nella consapevolezza però che “la destrezza si perde / e crescono il disinganno e l’affanno”.

Sono due i temi che più incalzano il lettore, e pressano lo scrittore stesso diremmo, e si rincorrono: da una parte, l’implacabile avanzare dell’età e della malattia, che rende più fragile l’uomo di fronte agli affanni del mondo e alle sue mancanze, e lo condanna a una sorta di inattuabilità del sentimento amoroso, come avviene per l’alter ego Don Pasquale, protagonista dell’opera buffa di Donizetti, che dà il titolo alla seconda sezione della raccolta; dall’altra, il progressivo senso di disappartenenza alle vicende della realtà storica, che ha preso sue strade, sempre meno comprensibili, con l’affermarsi della società di massa e delle sue conseguenze, che lasciano il poeta – forse più in generale la poesia – sotto il peso di un sentimento generale di frustrato e ribelle fallimento. Il violino verde di chagalliana memoria (“Vorrei che la mia poesia risonasse come un violino… Anche se storto, se guercio e perciò chagalliano”, scrive Ripellino nella prosa Di me, delle mie sinfoniette”) diventa allora lo strumento per riscattarsi dal male, per tentare ancora una festa, per esorcizzare, con il giocoso contrappunto della musica, le colpe e le imperfezioni dell’esistenza.

Angelo Maria Ripellino fotografato da A. De Donato nel 1962

La poesia di Angelo Maria Ripellino, in particolare quella delle ultime raccolte, in cui bene si inserisce per intonazione e per contenuti Lo splendido violino verde, quinto e penultimo tra i suoi libri di poesia, si muove costantemente in equilibrio tra la consapevolezza dei limiti dell’agire umano, la sofferenza derivante dall’unica certezza possibile, che è quella della precarietà dell’esistenza, e la volontà di prodursi in un eversivo e indisciplinato, festoso e ironico sberleffo: “… egli porta giallissimi guanti / e per cravatta un carciofo, / che si va squamando”, scrive il poeta sulla scorta di Majakovskij e della sua “blusa gialla” esibita per le vie di Mosca, attingendo un po’ da Arlecchino e un po’ da un ritratto arcimboldesco, come suggerisce Umberto Brunetti nelle sue puntuali e documentatissime osservazioni, che lo portano a concludere che il poeta è un “clown tragico”, che “intona l’elegia dolorosa di un mondo in frantumi”.

Brunetti ha il merito di muoversi in assoluta scioltezza nel pastiche linguistico e nelle mille diramazioni, nell’“oceano ritmico e metrico, fonetico e semantico” (Bologna), nell’andirivieni metaforico, nelle criptocitazioni e nelle tante figure mitopoetiche, di cui è disseminata la poesia di Ripellino. L’intento è quello, come suggerisce lo stesso Brunetti, di realizzare “il primo commento scientifico a una silloge di Ripellino”, con lo scopo di “approdare a una visione più definita di questa voce poetica non ordinaria, che meriterebbe di trovare posto nel canone del nostro secondo Novecento”. Posto peraltro su cui dubitava ampiamente lo stesso Ripellino, che proprio nella lirica di apertura del volume e dunque della sezione prima Das letzte Varieté, si racconta come “uno scrittore che ha fatto molto parlare di sé”, che viene chiamato dal proprio editore “a discolparsi di non scriver più niente”. “Agghindatosi come un fagiano di orpelli e di penne”, rassicura l’interlocutore: “prima che scenda la sera, / ti darò forse un notturno, una Messa Solenne, / una Cherubinia, una lettera dalla galera, / insomma una cosa qualunque”, pur sapendo benissimo, “che altre pagine non impediranno / che io sia allegramente dimenticato”. Sono versi “allegramente” e amaramente autoironici di un poeta che ha sempre dovuto lottare con il disagio di vedersi cucita addosso una “medaglia al merito slavistico”, come lui stesso si esprime, con l’idea di essere considerato un critico letterario e teatrale (molto apprezzate le sue recensioni su “L’Espresso”) e dunque giudicato meno idoneo alla poesia, secondo una formula molto popolare, anche tra gli addetti ai lavori. Insomma il rischio, in questi casi, è di essere indicato come poeta quando si scrive di critica e come critico quando invece si producono versi. In una poesia di Lo splendido violino verde si legge: “Lei è poeta? Allora non è scrittore. / Ma se è critico, come può essere poeta?” Sono le domande, quanto mai affermative peraltro, che avanza una non meglio identificata “signora”. Il poeta, che non può essere poeta perché critico, risponde che le invierà “una grassoccia scatola di cotognate, / tutta piena dei miei mortaretti, / delle mie cigolanti ferrovie di fonemi, / delle mie impèrvie ballate, / di stracci di cenere / dei miei pagliacci Malello e Malora, / insomma, signora, un brandello della mia pena”.

Compito di Brunetti, e con lui di Bologna e Fo, da tempo impegnati nell’azione di valorizzazione dell’opera di Ripellino, in particolare di quella poetica, è di fornire le coordinate necessarie a riportare l’affaire in confini più confacenti, di oliare le “cigolanti ferrovie di fonemi” così da dimostrarne l’assoluta corrispondenza con l’esperienza più significativa della poesia del tempo, di offrire indicazioni e segnaletica perché il lettore avvezzo, e più ancora il critico e lo studioso, possano avere chiaro il rilievo dell’opera poetica ripelliniana.

Brunetti, oltre a rendere espliciti i tanti riferimenti a cui rimanda ogni singolo verso, le citazioni più o meno celate, costruisce un percorso di parentele, utile per districarsi nella varietà ritmica e formale e in qualche modo per decodificare il turbinoso, a tratti fragoroso, lessico delle poesie. Il dialogo con la tradizione letteraria italiana è ricostruito evidenziando i legami con gli autori del Duecento e del Trecento, con Petrarca, soprattutto per quanto riguarda il tema della “fugacità della vita”, con gli scrittori del Cinquecento, e più di tutti con Pietro Aretino, con la scrittura straripante e metaforica del barocco marinista. Il prurilinguismo di Ripellino, la volontà di fare i conti con la variegata tradizione metrica, trova elementi di discendenza con la poesia, lo sperimentalismo poetico vorremmo dire, di Pascoli e in parte minore di D’Annunzio. Poi c’è Gozzano, con cui, afferma Brunetti, si rivelano le maggiori somiglianze: “l’attenzione agli oggetti, specialmente quelli desueti o prosaici, l’onnipresente attesa della morte precoce”. A tutto questo va aggiunto quel senso di “malinconia che si ritorce su se stessa diventando ironia”, secondo le parole di Spagnoletti riferite al poeta crepuscolare, e poi, ancora una volta, la ricerca formale, l’uso audace delle rime.

Brunetti ricorda ancora Palazzeschi, a cui si perviene attraverso il tema della “buffoneria del dolore”, e “le numerose affinità tra Ripellino e Montale”, a partire dalla passione per la musica colta. C’è poi l’amore per Chlébnikov, Majakoskij, Pasternàk, studiati e tradotti.

In questa materia ampia e diversissima, si muove Brunetti con scupolosa attenzione, cercando di lasciare intonato il prezioso violino ripelliniano e intanto di dircene l’accordatura, di farci percepire tutti i toni dei suoi suoni.

Pubblicato su Semicerchio, rivista di poesia comparata LXIV (2021/1)

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