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TUTTE LE POESIE di Giovanni Giudici (Oscar Mondadori)

Nel 1953, appena pubblicata la sua prima raccolta di versi, Giovanni Giudici, che all’epoca abitava nella periferia di Roma, aveva quasi trenta anni e nell’operazione aveva impegnato 25mila lire dell’esiguo bilancio familiare, pensò di spedirne la prima copia ad Umberto Saba, che si trovava allora in una clinica romana per curarsi. Lo racconta lo stesso Giudici nel prezioso e ormai introvabile Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, spiegando anche il perché di tanta sollecitudine: “Già da diversi anni egli era il poeta che più amavo e leggevo e, forse, il primo fra i contemporanei del quale avessi letto qualche poesia”, che è un modo anche per mettere in evidenza una filiazione, per mostrare un grado di parentela. Saba, per la cronaca, rispose al giovane allievo, dando così inizio ad una frequentazione che sarebbe durata negli anni successivi, i pochi anni che separavano il vecchio poeta triestino dalla morte.
L’episodio è riaffiorato alla memoria, mentre sfogliavo il ponderoso Oscar Mondadori dedicato all’intera opera poetica di Giovanni Giudici: oltre 1200 pagine di versi, a cui vanno aggiunte le cinquanta dell’introduzione firmata da Maurizio Cucchi, l’apparato bio-bibliografico e le circa quaranta pagine di indice. Tutte le poesie, che va ad affiancarsi al Meridiano pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2000, si propone come uno strumento importante per avvicinarsi o per rileggere l’opera di uno dei poeti che maggiormente hanno segnato con la propria continua ricerca linguistica e con la forte connotazione etica, il panorama poetico italiano della seconda metà del Novecento.
Come Saba ebbe a contrastare i bagliori delle avanguardie e la presenza fagocitante dell’ermetismo attraverso una propria particolare declinazione della lingua della poesia e del valore che essa viene ad assumere nel rapporto con il lettore, anche Giudici, che si trovò inizialmente stretto tra le propaggini del neorealismo e l’invadenza sperimentale del Gruppo 63, seppe costruire un proprio peculiare percorso, alimentato del rapporto con la tradizione, che viene recuperata in forme sempre originali. Si percepisce in Giudici la necessità di nutrirsi del passato della letteratura, di attraversarlo con tenacia e regolarità, ma insieme l’attenzione costante ad abbassare i toni che dalla tradizione provengono, ribadendo in tal senso in maniera singolare ed efficace l’esempio gozzaniano. Del resto nell’opera del poeta di La vita in versi, Autobiologia, Il male dei creditori, per citare alcuni dei titoli più noti, la lingua della poesia, sorprendentemente tesa a prelevare da vari registri e da diversi territori linguistici è sempre comunque disposta a fare i conti con il linguaggio della comunicazione ordinaria. Giudici crede fortemente nella forza evocativa della parola, ma sa anche che essa non può prescindere dalla necessità di un confronto serrato con il presente. Del resto la poesia è avvertita come dispositivo per liberare e nello stesso tempo controllare l’energia della parola. Scrive Giudici in una delle brevi prose contenute nel volume a cui prima si faceva riferimento: “Fare i conti con la lingua sarà in primis prendere coscienza del ricco e polivalente strumento di cui disponiamo. Fare poesia: utilizzare un materiale di esperienze fisiche e sentimentali per fabbricare oggetti linguistici multi-uso. Dominare la lingua è dominare, nei limiti della nostra finitezza, il reale. Lingua è il reale che entra in noi, si trasmette e si propaga”. Ed è questa un’affermazione che bene può accompagnare la lettura dei versi del poeta nato a Le Grazie, una frazione di Portovenere, sul mare di Liguria, e poi vissuto lungamente a Milano.
L’Oscar da poco pubblicato dà conto di un percorso poetico vario e polifonico, ma sempre indirizzato a cercare di ottenere il massimo effetto comunicativo facendo interagire i valori prosodici e sonori del verso (l’uso per esempio di rime e assonanze, il continuo ricorso ad un sistema di strofe, la scelta nella seconda parte della produzione di far iniziare ogni verso con la maiuscola, a segnalarne la compiutezza fonetica e di senso) con il naturale svolgimento, vicino alla prosa, dei registri linguistici. Ne nasce una lingua varia e complessa, una mobilità espressiva che si realizza, come scrive Cucchi, attraverso “una continua oscillazione di tono e nell’uso di materiali linguistici e stilistici eterogenei”.
La poesia di Giudici oscilla anche costantemente, denunciando ancora una volta il legame con l’antecedente sabiano, tra la tendenza alla narrazione e la forte tensione lirica, in qualche modo placata però quest’ultima dal ricorso all’ironia e all’autoironia e dall’allusione a un paesaggio ordinario e quotidiano, a volte anche dimesso e popolato di piccole cose.
Scrivere poesia è sempre comunque una promessa d’amore nei confronti della parola, un’umile ma faticosa e studiatissima prova di abilità artigiana, ma anche, e in questo risiede in parte il valore etico dell’atto, capacità di ascoltare l’energia, le interne armonie, i doni, che le parole portano con sé. In questo senso il poeta è insieme “alunno e fabbro”, come è detto nella lirica Un poeta, contenuta nella raccolta Quanto spera di campare Giovanni del 1993: “Uomo, sì, grazioso / Come si dice di colui che pure / Non grato all’apparenza si fa amare / Per le miti maniere in braccio alle sventure / O minima intenzione a fior di labbro: / Di ciò nel fare cose di parole / Alunno e fabbro”.
(pubblicato su succedeoggi.it)

 

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