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SOLSTIZIO di Roberto Deidier (Mondadori)

Roberto Deidier in una foto di Domenico Stagno

A distanza di dodici anni dall’ultimo volume di versi, Roberto Deidier torna alla poesia nella prestigiosa collana dello Specchio di Mondadori con una raccolta densa e calibrata che dà conto di una maturità espressiva pienamente raggiunta. Tra Il primo orizzonte, edito nel 2002 da San Marco dei Giustiniani, e il recente Solstizio, Deidier, che insegna all’Università di Palermo ed è critico letterario tra i più acuti, ha pubblicato diversi contributi critici, tra i quali vanno ricordati i libri Da un luogo anteriore. Poeti italiani del Novecento e oltre, Il lampo e la notte. Per una poetica del moderno, e la raccolta di traduzioni Gabbie per nuvole, che compone una mappa dei suoi interessi e degli amori poetici, primi fra tutti Auden e Stevenson, tale da offrire non poche sollecitazioni interpretative per l’analisi delle successive opere in versi.

La poesia di Solstizio si muove tra opposte polarità: la necessità della letteratura di offrire senso all’esistenza e il vuoto in cui la coscienza dei nostri tempi ha precipitato ogni agire umano; la luce in cui vorremmo vedere splendere le nostre parole e i nostri atti, e il buio da cui pure quotidianamente siamo aggrediti; la ricerca di una verità che da qualche parte deve manifestarsi e la consapevolezza della multiformità del reale e dunque dell’impossibilità di raggiungere un qualsivoglia punto fermo. Del resto, il solstizio a cui fa riferimento il titolo è quel preciso momento dell’anno, in cui il sole, nel suo moto apparente, raggiunge il punto di declinazione massima o minima e dunque le ore di luce sopravanzano quelle di buio, o viceversa. I versi di Deidier si muovono alla ricerca di un equilibrio e una ricomposizione che appaiono però irraggiungibili, alle quali il poeta sembra in ogni caso voler credere. “Ma questo è il punto. Se incroci la verità / Lungo la strada, allora fatti da parte. / Voltati altrove e prosegui / Come un bambino ostinato / O l’uccello che a sera inoltrata / Non sa tacere”.

Nel suo procedere composto e controllato, con i versi sempre introdotti dalla maiuscola, a volerne sottolineare l’autonomia sonora e metrica, Deidier ci fa spesso credere che una verità in fondo esiste, ma ipotizzare di raggiungerla e fermarla è un pensiero ingannevole e fuorviante, che rischia di risultare paralizzante. Il poeta deve continuare a dire le proprie parole, al di là di facili e accattivanti vie d’uscita, ostinatamente credere che questo possa servire, appunto come l’uccello che, malgrado sia buio, non vuole smettere di cantare.

La luce è una presenza costante nei versi di Solstizio. Illumina i luoghi, in prevalenza cittadini o marini, ed è quasi sempre abbagliante, è la “luce chirurgica di agosto” che mette a nudo i particolari e provoca “rapide anestesie di sentimenti”. E’ una luce che, come avviene nella poesia del solare Penna, a cui Deidier guarda spesso con un misto di devozione e tormento, racchiude un fondo di sofferenza, contiene la presenza inequivocabile dell’ombra, la triste rivelazione della frattura irrimediabile tra il desiderio e la sua realizzazione (“Fuggirei da te come da troppa luce / A confondermi in un basso cielo grigio / Come una nuvola in un giorno d’autunno/ (…) Incalza il caldo, ci piega un sole afoso, / Sollevano i bambini lungo la strada / La poca polvere che a stento ci nasconde”). La luce si proietta sul passato, lo illumina rendendone però incerti i contorni, fa riemergere frammenti che si confondono con il presente, per cui “ieri e oggi” sono “diritto e rovescio / d’un solo foglio”. Così “Quando le tracce perdute / Riaffiorano e una voce conosciuta / Da qualche luogo interno ti richiama”, allora è facile comprendere “Quanto l’arrivo sia nella partenza / E l’ombra nella luce del tuo viaggio”.

La realtà è mutevole; il tempo, nelle poesie di Deidier, non scorre linearmente ma rimbalza, procede a scatti o ondeggia pericolosamente, lasciandoci in preda a un presente senza confini, che racchiude nello stesso istante lacerti del passato e spaesamenti provocati dall’idea di un futuro che forse sta già accadendo. Ne è emblema il breve poemetto Giornale atlantico, nel quale cinque figure, cinque giacche a vento che disegnano “una scala cromatica nel vuoto” si trovano a procedere “Sul fondale a orario / Di questo deserto provvisorio”, che è poi l’ampio tratto un po’ mare e un po’ terra che contorna Mont Saint-Michel. Saranno presto incalzate dalla marea che avanza, così come dal “destino che forse risponde / Oltre le sabbie mobili e i riflussi”. Il mare che si sveglia “li accerchierà / Dalle sue tane indistinte” e loro sono “zattere di carne” che si affrettano: “L’isola è lì davanti, buco nero / Di questa informe galassia”. Quando finalmente possono considerarsi in salvo e accendere un fuoco a mezzacosta, e “L’isola è un’isola, /La sabbia è solo una distesa / Fin sotto gli spalti del monte St. Michel”, i cinque personaggi guardano con sicurezza alla brace, al “suo piccolo esatto bagliore”. La poesia forse è proprio questo: residuo di un passato già svanito, una brace che si presenta come un “esatto bagliore”, l’illusione di una certezza in un mondo che non dà tregua e che nemmeno è ricostruibile secondo un’esatta mappa temporale. La poesia di Deidier è fisica, rappresenta con un dettato sicuro sensazioni e paesaggi. Sembra non utilizzare immagini simboliche, ma rimanda ad altro, alla comune esperienza più profonda, alla nostra fragilità di esseri umani. Il paesaggio che racconta è spesso cittadino, come nelle Dieci poesie vissute a Palermo: “Le botteghe del mercato sono grotte, / L’aria si fa più spessa tra le dita. / Il genio della piazza è quest’odore / Di spezie, frutta, carne rinfrollita: / Sotto i raggi incalza un nuovo sopore / Ma vociano tra i banchi, assale vita / Da questa piena che il mio sguardo inghiotte”.

(pubblicato su succedeoggi.it)

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