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Poesia del destino

Alessandro Fo, Filo spinato, Einaudi

 

Il “filo spinato” a cui fa riferimento il titolo della raccolta di versi di Alessandro Fo, edita recentemente nella collana bianca di Einaudi (Filo spinato, 128 pagine, 11,00 Euro), è quello, di concreta consistenza, utilizzato a difesa delle trincee durante la prima guerra mondiale. Il nonno del poeta, allora giovane soldato, “dopo un assalto, rientrava in fretta, / ma al momento del salto, sotto i colpi / restò impigliato in un reticolato”. Almeno è questo che ricorda il nipote (“questa nebbia di ricordi in versi”), che trasferisce in poesia il racconto del protagonista, narrazione peraltro non confermata, come si dice nella nota finale, dal rimanente drappello dei familiari. Sta di fatto, o sta nella memoria e nel mito personale, che l’impedimento alla corsa per ritornare in trincea, e l’infruttuoso tentativo di divincolarsi, valsero al soldato la vita. Infatti mentre lui bestemmiava contro i numi avversi, una bomba “gli sorvolò la testa, / finì in trincea al suo posto, e uccise tutti”. Fo conclude che “senza quel filo, a cui siamo appesi” non ci sarebbero stati suo padre, Fulvio, e il fratello di lui, il ben noto Dario, attore e commediografo, e conseguentemente sarebbe mancata l’assegnazione del premio Nobel. Insomma, il “filo spinato” è anche altro: quel tanto di inconsistente, temeraria fatalità che ci lega alla vita.

Filo spinato nasce innanzitutto dalla consapevolezza che le esistenze di noi tutti (non sfugga il plurale “a cui siamo appesi”) sono appunto “appese” a una serie di circostante fortuite, a situazioni imprevedibili, a inattesi ostacoli, manovrati dal destino o, se piace di più, da una mano invisibile, provvidenziale o no, della quale comunque sono poco comprensibili i progetti e le finalità. Questa fragilità che diventa presto transitorietà fa di noi un’umanità sofferente, perché informata del proprio ultimo destino, ma ancora di più perché destinata ad essere spettatrice, a volte interessata e partecipe, dei patimenti altrui, delle condanne che vediamo inflitte alle persone care. Alessandro Fo compone una sorta di lamento per la nostra comune sorte di genere umano, una via crucis che prevede le tante fermate delle poesie di cui si compone il libro, e ci costringe di nuovo a sostare, sembrerebbe, nel piccolo cimitero di Spoon River, per conservare il ricordo di quanti ci hanno lasciato ed ascoltare la voce dei defunti, che in questo caso però non hanno quasi mai da recriminare, ma solo affidano al poeta la loro storia di donne e di uomini, non dissimile da quella di tanti altri.

Non è un caso che tra le prime poesie del volume ci siano richiami ad arcangeli, angeli ed a voli alati: oltre a legare le liriche alla precedente raccolta di Fo Mancanze, dove le presenze angeliche erano dominanti, diventano un modo per introdurre al territorio su cui si costruiscono i versi della raccolta, un luogo tra l’apparente concretezza del mondo terreno e l’inconsistenza di cui sono fatti il prima e il dopo, ma anche l’attimo presente. Che siano gli angeli insomma ad accompagnarci tra la “distesa prodigiosa / di scordate esistenze”, a portarci per mano dinanzi alla più ovvia e più terribile delle verità: “Chiusi fra tanto nulla (o fra due date) / siamo parentesi, / fragili dissolvenze, / scrigni di piani, gioie, sogni futili, / meschinità ed accumuli / friabili”.

Il sentimento affettuoso e complice con il quale Alessandro Fo partecipa del destino altrui e riporta in vita esistenze ormai consacrate all’oblio (“Molto vi fate vivi, grandi piccoli / morti della mia vita”) si mostra anche attraverso il tono sempre pacato, un linguaggio fluido e naturale, a tratti colloquiale, che non disdegna, anche in situazioni drammatiche, di concedersi a una (disperata, verrebbe da dire) commossa ironia, seguendo un modello che viene dall’amato Gozzano, di cui peraltro Fo ha curato recentemente un’edizione de I colloqui, per i tipi di Interno Poesia.

Della lirica Arcangeli del Corelli sono protagoniste alcune suore di clausura, impegnate, alle prime luci dell’alba, in un servizio fotografico su una spiaggia, a cui assiste anche il poeta, che dovrà scrivere un testo di accompagnamento alle foto. La poesia si conclude con una evidente, trasfigurata citazione di un molto noto testo di Caproni: “Alba quasi incredibile, fantastica, / nel seno del creato… / Per loro sia in onore / la rima suore e aurore”. Nei versi di Angelo della voce resta immobile durante la messa, troppo preoccupata dei movimenti di un bambino irrequieto, una donna “semplice nel volto e nelle vesti”, che “non si alzò una volta, / né mai si inginocchiò”, ma che “d’un tratto sembrò emergere / da un celeste distacco imperturbato / (…) / e la voce era dolce / calda piena sonora, / soprannaturale perfezione / e legittimo vanto / d’angelo a pieno titolo”. Ma è un angelo “a pieno titolo” anche Mia Martini (“Ho amato Mia Martini, / lo confesso”), che riappare nel corso di una trasmissione televisiva: “È sera, è ferragosto, / e francamente, / finito che sarà questo spezzone, / temo non ci sarà assolutamente / nessuno che la pensa, Mia Martini, / in tutto l’universo”: così il poeta può immaginare che la canzone sia dedicata a lui, l’amore insomma totalmente ricambiato. Così come è pur sempre un angelo quella tale Kay Kent, sosia di Marilyn Monroe, e come lei morta suicida con alcol e barbiturici: “Sono stata lei e anche non-lei. / Nessun pettegolezzo sui miei amori, / scarso interesse per una replicante. / Ho condiviso la sua infelicità”.

Al padre Fulvio, organizzatore e direttore artistico in campo teatrale, è dedicata la poesia Ingannare il tempo, che chiude e dà il titolo alla prima sezione del libro, e che offre argomenti per una riflessione che attraversa tutte le pagine del volume, appunto quella relativa allo scorrere del tempo  e alla condanna che si porta con sé. Il padre però non sembra preoccuparsi di una questione che affligge l’effimero genere umano (“lui a dire il vero / si è sempre ritenuto un immortale, / con un segreto di sopravvivenza”), tanto che di fronte al cancro che lo colpisce e lo porterà alla morte, “prende il male come una grande influenza”, naturalmente che sarà possibile curare. Pensa dunque, lui già ultraottantenne, a cosa fare al termine della cura, non perché gli serva guadagnare, ma così “per lavorare, / per ingannare il tempo”.

Ingannare il tempo è in effetti occupazione e preoccupazione eminentemente umana. Ma diventa questione di sopravvivenza tra le mura di un carcere, soprattutto per chi sa che la sua pena non potrà avere fine. Al Muto carcere è dedicata la seconda sezione del libro, che si nutre della esperienza di volontario di Fo in istituti di pena. È il carcere il luogo dove “ferve un vuoto movimento, / complemento di moto senza luogo”. Il poeta dà così voce agli ultimi, ai derelitti, agli esclusi dal mondo, agli atterriti. Chi non ha più voce e vive in un luogo senza luogo è ancora protagonista della terza parte del libro, significativamente titolata Dei sepolcri, again. La poesia, sulle tracce di Foscolo, conserva una “corrispondenza d’amorosi sensi” con chi non è più in vita.

 

Pubblicato su Succedeoggi.it

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