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Natalia Ginzburg, le parole da non gridare

“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere l’uno con l’altro indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: ‘Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna’ o ‘De cosa spussa l’acido solfidrico’, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo”.

Così scrive Natalia Ginzburg in Lessico famigliare, il romanzo pubblicato nel 1963, che contiene eventi e memorie della vita risalenti agli anni del fascismo, quando la scrittrice era poco più che una ragazza.

Natalia Ginzburg

Succede così, soprattutto nelle famiglie numerose, che l’inevitabile diaspora lasci intatto un frasario gergale, una sorta di idioletto ad uso familiare, capace di riattivarsi anche a distanza di anni e di ricostruire, appunto come un testo di una civiltà scomparsa, un’atmosfera, un ambiente culturale. Si scopre, con il passare del tempo e con il cambiamento di abitudini, di conoscenze e di frequentazioni, che quelle parole e quelle espressioni, che noi credevamo di uso comune, sono in effetti comprensibili nei loro riferimenti comunicativi, solo ad un ristretto numero di persone. Non solo: sono parole ed espressioni che contengono una forte carica emotiva, possono ad esempio generare subito il riso o richiamare momenti dolorosi, ma solo per noi e per pochi affini. Insomma la frase “De cosa spussa l’acido solfidrico” ha significato qualcosa di rilevante, accedendo a chissà quali allusioni, solo per Natalia Levi (questo il nome della scrittrice prima di sposare Leone Ginzburg) e per i suoi familiari.

C’è da dire però che la casa torinese dei Levi, anzi le varie abitazioni che si riferiscono al periodo raccontato nel romanzo, erano frequentate da personaggi che partecipavano attivamente, o l’avrebbero fatto di lì a poco, alle vicende politiche e culturali di quegli anni, attivi nel movimento antifascista, fuoriusciti o inviati al confino, o comunque scrittori e scienziati che sarebbero poi stati al centro della vita nazionale. Nella casa di via Pastrengo approdano, ad esempio, Filippo Turati (“lo ricordo, grosso come un orso, con la grigia barba tagliata in tondo, nel nostro salotto”), il fisico Franco Rasetti, Giancarlo Pajetta, Adriano Olivetti, che avrebbe poi sposato la sorella della scrittrice, e suo padre Camillo (“a me faceva impressione l’idea che quei cartelloni di réclame che vedevo per strada, e che raffiguravano una macchina da scrivere in corsa sulle rotaie d’un treno, erano strettamente connessi con quell’Adriano in panni grigio-verdi, che usava mangiare con noi, la sera, le nostre insipide minestrine”); vi arrivavano ancora Paola Carrara, che era figlia di Cesare Lombroso e che scrisse libri per l’infanzia, Vittorio Foa, naturalmente Leone Ginzburg, e in una foto campeggiava una giovane Anna Kuliscioff, a fianco della mamma della scrittrice

 

La scrittrice con Leone Ginzburg

Insomma, la Ginzburg parte dal ricordo dei momenti in cui quel vocabolario privato veniva creato e alimentato, per approdare ai grandi avvenimenti, sempre però visti da un’ottica familiare: racconta le storie quotidiane per dirci che la Storia, quella che si compone di eventi collettivi, non può prescindere dai piccoli fatti, da quanto accade all’interno delle mura familiari. Non è solo la grande Storia a ripercuotersi sulla vita dei singoli, ma sono per primi gli atteggiamenti domestici e quotidiani a modificare il corso della Storia.

Le parole in questa ottica risultano fondamentali. Così come sono capaci di ricomporre un’atmosfera e il senso di un mondo perduto, possono esprimere, con la loro semplicità, i valori di una quotidianità rigorosa e contenuta, contro la retorica di un regime che tendeva a esagerare i fasti e a voler far passare l’enfasi e la ridondanza per gloria. Contro la verbosità ampollosa di Mussolini e dei suoi simili, Natalia Ginzburg propone il lessico famigliare della linearità e della essenzialità.

Anche per questo Lessico famigliare sarebbe lettura da riproporre oggi, anche ai più giovani, come antidoto contro la barbarie di un linguaggio sempre gridato ed esagerato, come è quello della politica dei nostri giorni, come medicina preventiva, per evitare di credere che le soluzioni importanti passino solo attraverso un linguaggio complicato e poco chiaro. E’ anche il libro che ci permette di capire che quello che diciamo tutti i giorni, anche nell’ambito ristretto della famiglia, del piccolo gruppo di amici, ha un suo valore, una propria forza che, a distanza di tempo, può prodigiosamente proporre i suoi effetti.

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