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Marino Moretti e una rosa

L’opera di Marino Moretti è stata classificata, per tutta la vita dell’autore, sotto l’etichetta di “crepuscolare”. Del resto il suo libro più noto, Poesie scritte col lapis, risale al 1910, e dunque si inserisce, in piena stagione crepuscolare, tra le raccolte di Gozzano, La via del rifugio, che è del 1907, e i Colloqui, del 1911. E’ noto che il critico Borgese abbia coniato il termine pensando innanzitutto all’opera del poeta romagnolo.

Eppure la produzione di Moretti si svilupperà ben oltre il periodo crepuscolare, accompagnando lo scrittore per buona parte della sua vita, fino a pochi mesi prima della morte, avvenuta nel luglio del 1979 a Cesenatico, la cittadina dove era nato, sempre nel mese di luglio, nel 1885. Non può che suonare strana una così fedele adesione ad un’avanguardia, peraltro mai esibita in dichiarazioni di poetica, tanto più se si considera che, a partire dal 1915, Moretti non pubblicò per diversi decenni libri di poesia, ma solo, e molti, racconti e romanzi, alcuni di grande successo, fino all’ultima sua straordinaria stagione poetica, che si inaugura con L’ultima estate nel 1969 e si conclude con Diario senza le date, che vede la luce nel 1974. 

Marino Moretti nella sua casa di Cesenatico

Certo la poesia di Moretti sviluppa un’attenzione per gli oggetti e gli eventi della vita quotidiana, per i luoghi abituali del vivere, in questo senso aderendo ad un comune sentimento che lo unisce ad altri esponenti della poesia crepuscolare. Ma si tratta di un’applicazione quasi ossessiva e che sempre riporta poi alla vita dell’autore. Ciò risulta particolarmente vero soprattutto per la raccolta Poesie scritte col lapis. Basta scorrere i titoli delle poesie: La giostra, Cane randagio, Hortulus, La maestra di piano, Elogio dello sbadiglio, Orario ferroviario (che è proprio quel librettino giallo, dalle esili pagine fitte di nomi di località e di numeri, che alcuni, nati in epoca pre-tecnologica, ricorderanno), Valigie, Il giardino della stazione, Botteghino del lotto, Dal barbiere, Telefono, Ascensore, fino a rendere degno di poesia anche Il piccolo Melzi, che è poi un dizionario della lingua italiana, particolarmente diffuso a quel tempo, che farà bella mostra di sé nelle case borghesi ancora per alcuni decenni (“Vedi, io non ti domando, amico dotto, / mentre scrivo, un consiglio frettoloso, / né per turbare il tuo giusto riposo / ti riaccosto a un libro mal tradotto; // ti guardo e t’amo perché tu mi vieni / di così lungi come una parola / detta nell’ombra: vieni dalla scuola, / mio buon glossario, dai miei dì sereni”).

Più che fratello di Gozzano, Moretti è figlio di Pascoli. Del poeta di Myricae possiede lo sguardo che si fissa meticolosamente su una realtà vicina, che nella sua ordinarietà svela la mediocrità (o, nel caso di Pascoli, la malvagità) dell’esistenza, il peso del vivere. Ma il mondo di Moretti è essenzialmente cittadino e provinciale, mai campagnolo e rurale, mentre la sua poesia ha voglia di mettersi continuamente in discussione (“Aver qualche cosa da dire / nel mondo, a se stessi, alla gente. / Che cosa? Non so veramente / perché io non ho nulla da dire”) ed è percorsa da un’ironia appena percettibile nell’amara rassegnazione che la contraddistingue. Moretti crede e non crede a quello che dice, ma sempre compone un autoritratto fintamente svagato, in qualche modo affabilmente consolatorio: nel disegno che si compone anche gli oggetti hanno una loro vita, ma solo se possono dire qualcosa sulla vicenda esistenziale dell’autore dei versi. Come scrive Luigi Baldacci, in uno scritto apparso per il centenario della nascita di Moretti e poi riproposto in Novecento passato remoto, “l’accento, la novità di Moretti stanno tutti nel prender coscienza della prigione del già detto, dalla quale il poeta moderno non può evadere”.

Ho scelto di parlare di Marino Moretti, e in particolare della sua prima produzione poetica, appoggiando le mie riflessioni ad un testo solitamente poco frequentato, Elogio di una rosa. Ma poi, in verità, quali sono i testi di Moretti oggi conosciuti, a parte la poesia A Cesena, ancora in qualche caso presente nelle antologie per i licei? Dico per inciso che mi piacerebbe questa pagina fosse la prima di una serie, tale da fornire la base per alcune letture (una per ognuna delle circa trenta settimane di lezione di cui si compone un anno scolastico?), naturalmente fuori dal contesto ufficiale del programma: trenta poesie del Novecento, tra quelle meno presenti nelle antologie, accompagnate da un breve commento.

Elogio di una rosa

Rosa della grammatica latina
che forse odori ancor nel mio pensiero
tu sei come l’immagine del vero
alterata dal vetro che s’incrina.

Fosti la prima tu che al mio furtivo
tempo insegnasti la tua lingua morta
e mi fioristi gracile e contorta
per un dativo od un accusativo.

Eri un principio tu: ma che ti valse
lungo il cammino il tuo mesto richiamo?
Or ti rivedo e ti ricordo e t’amo
perché hai la grazia delle cose false.

Anche un fior falso odora, anche il bel fiore
di seta o cera o di carta velina,
rosa della grammatica latina:
odora d’ombra, di fede, d’amore.

Tu sei più vecchia e sei più falsa, e odori
d’adolescenza e sembri viva e fresca,
tanto che dotta e quasi pedantesca
sai perché t’amo e non mi sprezzi o fori.

Passaron gli anni: un tempo di mia vita.
Avvizzirono i fior del mio giardino.
Ma tu, sempre fedele al tuo latino,
tu sola, o rosa, non sei più sfiorita.

Nel libro la tua pagina è strappata,
strappato il libro e chiusa la mia scuola,
ma tu rivivi nella mia parola
come nel giorno in cui t’ho “declinata”.

E vedo e ascolto: il precettore in posa,
la vecchia Europa appesa alla parete
e la mia stessa voce che ripete
sul desiderio di non so che cosa:

Rosa, la rosa
Rosae, della rosa…

 

E’ chiaro fin dal primo verso che la rosa di cui si parla non è il fiore, ma il termine latino solitamente utilizzato per introdurre gli studenti allo studio della prima declinazione e dunque più in generale della lingua latina. L’immagine di una generica rosa e la parola latina si confondono, tanto che la pianta può “fiorire gracile e contorta / per un dativo od un accusativo”. E’ proprio questo non esistere ad attrarre maggiormente il poeta (e a dirci tanto su quello che Moretti intende per poesia), perché la rosa è insieme presenza concreta e abituale, ed anche solamente astrazione, capace di evocare un’epoca trascorsa, come tale particolarmente seducente, “perché hai la grazia delle cose false”. Il gioco tra la realtà e la sua rappresentazione viene portato al massimo effetto, quando il poeta dichiara che “anche un fior falso odora”, e in questo caso la “rosa della grammatica latina” emana un odore “d’adolescenza”. Mentre gli altri fiori del giardino sono avvizziti, la rosa è rimasta fedele al suo latino, a quell’antica cantilena della declinazione e non è più sfiorita.

Moretti parla dunque del tempo, del procedere della vita che ci allontana da quella che, per lui, ma anche per Pascoli, è la stagione felice della fanciullezza e dell’adolescenza. Il regredire verso gli anni dell’infanzia, anzi la possibilità che il fanciullo accompagni per sempre l’uomo adulto, che pure sente la perdita di quel tempo non più presente, è uno dei grandi temi della poesia di Moretti, che si riproporrà, e con nuovo vigore, anche nelle ultime raccolte.

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