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La parte mancante. Riflessione sulla poesia e i suoi lettori

Il testo riportato di seguito è pubblicato sull’annuario di poesia “I limoni” edito nel 2022. La riflessione è stata anche alla base dell’intervento al seminario online della serie “I poeti critici. Creazione e impegno nella poesia italiana contemporanea”, tenuto nel febbraio 2022 presso l’Université Aix-Marseille, CAER.

A ben guardare, c’è sempre qualcosa che manca in una poesia. Lo vuole innanzitutto la lingua, che per statuto, almeno nella tradizione lirica, tende a condensare, a saltare alcuni passaggi logici e quindi anche lessicali e di connessione. L’accostamento di immagini, di situazioni e riflessioni, e così anche delle proposizioni sintattiche, può prevedere sbalzi e scivolamenti, dunque improvvise interruzioni del senso logico, che va altrimenti recuperato.

C’è una parte insomma di non detto, di non compiutamente definito, un’assenza che pure si manifesta, attraverso un suo funzionamento fuori dall’ordinario, come sostanza, della quale possiamo percepire la fisionomia, appena delineata, e i confini, sfuggenti, irregolari, discontinui.

La poesia consegna al lettore, insieme alle parole e alla loro eloquenza manifesta, anche un luogo fisico disabitato e privo di ogni espressione sonora, però potenzialmente pieno di cose e di senso, che è visivamente e graficamente rappresentato dal territorio bianco a conclusione di ogni verso. È l’invisibile materia oscura, ossimoricamente espressa dal bianco nitido che ci riporta al verso successivo. La materia oscura del resto non è quello che non c’è, ma quello che non si vede, o meglio ancora non si conosce, comunque massa, materia appunto, oggetto dotato di corporeità. È lì forse che il discorso della poesia può trovare soluzione, quello il luogo dove il significato si compie e le domande conoscono risposta. Ma se tutto questo avviene nell’assenza della parola e nel bianco che abbaglia e silenzia, allora possiamo anche dire che nessun discorso ha mai soluzione, che il senso in nessun caso arriva a compiersi, che non c’è nessuna risposta che possa soddisfare definitivamente le nostre domande, che una parte della materia, quella che rifinisce e integra, rimane ammantata di mistero, è forse da costruire, forse solo da immaginare. Non c’è insomma nessun significato che possa appartenere per sempre ed esaurientemente ai versi di una poesia, ma solo, nel luminoso bianco a completamento di ogni verso, è presente una potenzialità da riempire, un vuoto da assumere, un silenzio da compensare.

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Leonardo Sinisgalli nella seconda delle Trenta proposizioni contenute in Horror vacui, a sua volta raccolto in Furor mathematicus, scrive che «La poesia è interamente chiusa da ogni lato», e poi quasi a completamento sottolinea, in una delle proposizioni successive, «La poesia è finita, appena esiste. Si rivolge in dentro da tutti i suoi punti». E ancora, appena dopo, «Per la poesia il crescere è indifferente».

In effetti il verso è sempre un vertere, un voltare, andare a capo, e dunque un ritorno al punto di partenza. D’altra parte versus si pone innanzitutto come participio passato, è qualcosa di già accaduto, concluso, per forza di cose chiuso. È questa conclusione che permette, anzi impone, di andare a capo senza procedere nel rigo fino a dove sarebbe altrimenti consentito, fino allo spazio estremo della pagina. In questo senso non c’è dubbio che la poesia si rivolga in dentro, che sia introflessa e in qualche misura centripeta, che si riversi su se stessa. È anche vero che la poesia è “chiusa da ogni lato”, in quanto nel momento in cui è compiuta, non può dirsi diversamente, se non a costo, per lo stretto legame esistente tra significante e significato, di diventare altra da se stessa.

Lo spazio bianco di cui si diceva racchiude, costringe, forza ad un rientro. Che sia una composizione libera o che invece sia concepita come una “forma chiusa”, la poesia non è mai libera, si muove all’interno di una gabbia, che essa stessa si costruisce e si definisce. Eppure, paradossalmente, senza quel luogo di costrizione, al di fuori della sua artefatta postura, la parola non può dirsi poesia e non può trovare la propria libertà, non può aprirsi a significati insoliti e non ordinari.

Sinisgalli, al termine del breve scritto interamente dedicato alla riflessione sulla poesia, spiega che le proposizioni nascono da una trascrizione per sostituzione (un’operazione sulla scorta di quello che aveva già fatto, tra gli altri, Lautremont) da un trattato sui cristalli di J. Killian. Il trattato, c’è da aggiungere, fu pubblicato in Italia da Dell’Oglio nel 1943 con il titolo di Storia del cristallo.

Da sottolineare che il cristallo riconduce a un’idea di lucentezza, a una luminosità trasparente e però definita e conclusa, a una forma appunto cristallizzata.

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Le due parti di questo discorso sembrano contraddirsi. In effetti convivono in una poesia un senso aperto e una forma chiusa, un significato che per trovare la propria ragione deve tornare al suo interno e una struttura grafica che lascia aperti spazi disponibili al completamento. La poesia è, anche nella sua evidenza visiva, una forma non conclusa, eppure chiusa, si apre a un senso ulteriore per definizione, a un qualcosa che sempre è ancora da dire, ma non può che manifestarsi nel modo in cui si esprime. È quella la forma della poesia, della singola lirica, non può essere altra. Eppure la forma poetica esibisce anche la sua incompiutezza, l’esistenza di una mancanza: non può crescere, anzi “per lei il crescere è indifferente”, ma non può che mostrare l’esigenza di qualcosa che la completi, che la faccia crescere. Per questo, ogni poesia si propone di diventare diversa da quella che è: non può accadere, ma nella sua configurazione si esprime l’idea di un difetto, di una scomparsa, quindi la necessità di riempimento e di trasformazione. È proprio in questa proposizione di inadeguatezza e di ricerca la natura più vera e profonda, lo stato obbligatorio in cui ogni poesia vegeta e si estende e sviluppa, pur senza essere in grado di correggerlo, il suo stato iniziale.

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In questa zona ambigua, nel bianco cristallino che separa e ricongiunge, che allontana e unisce, deve svolgersi il lavoro del critico di poesia. Siamo nel territorio lungo il confine, dove paradossalmente la misurazione determina una chiusura, il conteggio delle sillabe intima una cessazione, eppure non conclude. Questo è il luogo che segna la frattura e la congiunzione, che genera la pausa silenziosa che suggerisce un’assenza densa di senso e insieme contribuisce al disegno di una forma cristallizzata. In questo non-luogo che è tale non in ragione di un disturbante anonimato, ma che anzi è pieno di troppi nomi, di troppe parole da dire, di frasi da concludere e riempire, è possibile recuperare un senso, cercare, di volta in volta, di chiudere un lavoro che comunque va detto non potrà mai essere chiuso. Il critico di poesia non è dunque colui che sa, ma colui che cerca, è il lettore in possesso di una particolare strumentazione di sonda, che è in grado di aggiungere significato, avendo consapevolezza che la sua missione è limitata e di fatto non esaustiva, in quanto il suo lavoro non può dare conto compiutamente di un’assenza, né assumere forme che sostituiscano quello che non è possibile conoscere, né d’altra parte può intaccare o modificare il profilo sagomato del corpo cristallizzato dei versi.

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Per spiegare meglio cosa voglio dire, o forse per aggiungere incertezza e smarrimento a quanto già scritto, mi viene in mente una prosa poetica di Camillo Sbarbaro, forse la più bella del Novecento italiano. Sbarbaro, che ne era un apprezzato studioso, un esperto tra i maggiori in Europa e nel mondo, sta parlando dei licheni, della loro capacità di adattarsi a vari ambienti, che non siano quelli urbani. Nel testo, che ha titolo appunto Licheni, ed è contenuto in Trucioli, scrive che alcuni di questi piccoli organismi, capaci di adattarsi ai più diversi ambienti, purché siano territori non frequentati dagli esseri umani, “campano nella sabbia”. In questo caso «nella impossibilità di fissarsi su un elemento che manca loro continuamente di sotto, voltolati e talvolta sollevati dal vento, raggiunti in ogni parte dal sole, imparano a bastare a se stessi. Si arrotolano, si appallottolano». Allo stesso modo di questi fluttuanti vegetali, che Sbarbaro chiama “i déracinés dei licheni”, si comportano le parole della poesia: imparano a bastare a se stesse, si chiudono, si appallottolano, si acquattano nel recinto che esse stesse formano e intanto non possono avere fissa dimora, sono continuamente voltate e rivoltate dai vortici ventosi, dunque risultano continuamente in movimento, anche se fissate in una forma chiusa.

Il compito del critico è capire verso dove soffia il vento, quale è la direzione, il verso lungo il quale si muovono le parole-licheni, e cosa racchiuda e cosa liberi la propria ostinazione alla sopravvivenza, il ritornare, il chiudersi, l’appallottolarsi. Sto dicendo allora di una critica che ci accompagna nel luogo poco frequentato dell’assenza e della pregnanza, delle infinite possibilità del bianco e della durezza del cristallo, della inesauribile uniformità del bianco e della trasparenza del cristallo.

Il poeta, che sia anche un critico, può forse più adeguatamente penetrare in questo territorio infido e generoso, un territorio che va percorso e sondato, non spiegato, va popolato, non colonizzato. Va raccontato, se vogliamo, all’altro lettore, che non ha bisogno di apprendere dal critico, ma appunto di leggere. Vanno fornire le mappe che consentano l’esplorazione, le coordinate per rendere agevoli i percorsi, vanno indicati i raccordi e le circonvallazioni che possano essere utilmente utilizzati.

Non possiamo dimenticare che i licheni sono degli organismi simbionti, cioè sono formati da due organismi che vivono insieme, si sono adattati ad esprimere la loro esistenza come se fossero una cosa sola. Un fungo miscroscopico costringe dentro una rete minima le alghe unicellulari che partecipano alla sussistenza simbiotica. Questi esseri poi, già di per sé dipendenti da un’altra parte di sé, diversa comunque da sé, cambiano forma e postura, per sopravvivere si adattano a un’altra ulteriore vita che li accoglie, che sia pietra o corteccia, foglia o scampolo di terra, sabbia, a volte anche si congiungono al vetro, al cuoio, al cemento. È inevitabile che il lichene sia “il più multiforme dei vegetali”. «Molti formano tetti d’embrici – scrive Sbarbaro -; molti, pavimenti; a tasselli triangolari, pentagonali, poligonali. Altri Vie lattee, sistemi stellari. Altri, penduli dai rami, barbe, criniere equine, capigliature assaloniche».

Non c’è dubbio che i licheni vogliano assomigliare al mondo, rimetterlo insieme a proprio modo, dalle stelle ai granelli di sabbia, essere tutto, essere intorno a tutto. Allo stesso modo le parole della poesia ricostruiscono il mondo, ridisegnano l’esistenza, ne copiano e reinventano le svariate forme. La velocità sintetica, la capacità di assumere forme chiuse e sempre diverse dei licheni e della poesia rappresentano la volontà di essere mondo, e non solo di essere al mondo, e l’impossibilità di conoscerlo fino in fondo. Il critico che sia anche lettore, o meglio ancora il lettore che sappia essere anche critico, non può che tenerne conto.

Può tornare utile quanto scrive Franco Fortini nel 1965 in Verifica dei poteri (il volume è stato recentemente riedito da Il Saggiatore): «Il critico letterario ha come oggetto un’opera che, proprio perché non-discorsiva, non-analitica, ma sintetica, ha o pretende di avere la complessità stessa “del mondo”, “della vita” e “dell’uomo”. Esercitare la critica, svolgere il discordo critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico, allora, è il diverso dallo specialista, dal filologo e dallo studioso di “scienza della letteratura”; è la voce del senso comune, un lettore qualsiasi che si pone come mediatore non già tra le opere e il pubblico di lettori ma fra le specializzazioni e le attività particolari, le “scienze” particolari da un lato, e l’autore e il suo pubblico dall’altro».

Il critico, che è un lettore mediatore, deve adattarsi alla complessità dell’oggetto che ha davanti, che presenta le caratteristiche ampie e indeterminate “del mondo” e “della vita”, e che si manifesta per mezzo di un linguaggio nello stesso tempo aperto e cristallizzato.

Le parole di Fortini lasciano anche intendere che gli strumenti di analisi di un’opera che non sia discorsiva né analitica, ma sintetica, dunque innanzitutto e senza dubbio ogni testo che possa davvero dirsi poetico, non risiedano nello specifico della “scienza della letteratura”, analisi filologica, strutturale o altro che possa dirsi rigidamente connesso alle scienze particolari e specialistiche che si prefiggono l’analisi del testo letterario, ma debbano aprirsi ad ambiti più vasti ed operare abbattendo quella barriera, purtroppo più volte ostentata anche da chi si occupa a vario titolo di poesia, tra la stessa poesia e il resto del mondo, perché la poesia è in qualche modo anche resto del mondo. In tal senso, il critico non è solo il mediatore tra il pubblico dei lettori e le scienze specialistiche, come afferma Fortini, ma è colui che deve essere capace di rendere evidente la presenza nei versi della variegata e varia baraonda del mondo che la poesia tende a rappresentare e a sistemare, più o meno consapevolmente, in un organismo ordinato. Insomma, riprendendo l’immagine ricavata dal testo di Sbarbaro, il critico propone un assetto che sia stabile, almeno per un momento, per i licheni che vivono sulla sabbia, senza però negare la loro natura, senza perdere di vista il loro continuo ondeggiamento.

Insomma al critico di poesia viene chiesto, rubo l’espressione a Giorgio Manacorda, che la utilizza nel suo La poesia, edito da Castelvecchi, di “pensare poeticamente per capire la poesia”. Pensare poeticamente può significare penetrare nello spazio bianco che racchiude i versi e li costringe a rientrare e a rinnovarsi, popolarlo di quello che le parole non dicono e di quello che chiaramente offrono, ricostruire un disegno di insieme anche quando i versi sembrano suggerire la parzialità e la frammentazione, anche quando spingono a soffermarsi sul particolare, nascondendo programmaticamente la veduta d’insieme. In una lettera a Emma Corcos, la moglie del pittore Vittorio Corcos con cui intrattenne una lunga relazione epistolare, Giovanni Pascoli scrive che forse «i dotti d’Italia hanno perduto l’organo della sintesi, a forza d’esercitare solo quello dell’analisi». E fa riferimento all’illustre Francesco D’Ovidio, che fu professore di storia comparata delle lingue e letterature neolatine all’Università di Napoli, che, a detta del poeta, «ha un microscopio potentissimo: così potentissimo che non può esaminare se non un filamento alla volta dell’ala di una mosca. Di quel filamento sa dir vita e miracoli: l’ha rivoltato e rivoltato per tutti i versi, ma prima che arrivi alla mosca tutta sana!»

È chiaro che ogni poesia che sia tale parla sempre della mosca tutta sana” anche quando sembra solo discorrere della sua ala. E se parla solo dell’ala, o se chi legge può concentrarsi sull’ala perdendo di vista il resto, allora è evidente che non siamo di fronte a una poesia. Ed è chiaro che il lettore di poesia sia chiamato a recuperare il corpo nella sua interezza, ala ed altro, quello che si vede e quello che è materia oscura. Ce lo dicono, con chiarezza, i licheni.

La foto di copertina è di Giuseppe Grattacaso

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