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La brutta scuola

L’ampia sollevazione degli insegnanti contro l’ipotesi di riforma della scuola voluta dal governo, al di là del comprensibile malcontento che dà origine alla protesta, nasconde un atteggiamento di chiusura contro ogni possibile cambiamento, la volontà di conservazione di un modo di operare a cui si è in qualche modo abituati e che tranquillizza. La forte opposizione alla proposta di conferire ai presidi maggiore potere attraverso la possibilità di scegliere gli insegnanti da inserire nel proprio istituto e dunque di valutarne il lavoro, in effetti dissimula la propensione a volere che nessuno giudichi l’azione degli insegnanti e che non si parli di differenze tra l’uno e l’altro docente. Infatti, di fronte alla possibilità che il preside non agisca da solo, ma con l’ausilio di collaboratori, di genitori e studenti – i rappresentanti cioè dell’utenza della scuola – il coro si solleva ancora più alto e minaccioso. Insomma, il messaggio è chiaro: nessuno può valutare il lavoro di chi insegna se non gli insegnanti stessi. 

Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) tra i banchi di scuola nel film "I 400 colpi" di Truffaut
Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) tra i banchi di scuola nel film “I 400 colpi” di Truffaut

Che sia però necessario un cambiamento profondo è sotto gli occhi di tutti, e soprattutto delle famiglie, a cui per ora nessuno ha chiesto un parere sulla riforma. La nostra è una scuola seria, certamente, ma vetusta, poco incline a rapportarsi alla realtà e ai problemi che il nostro tempo impone. Verrebbe da dire che la scuola si rispecchia negli edifici in cui solitamente è ospitata: nobili palazzi, un tempo di pregio, conventi, seminari, collegi, costruiti qualche secolo fa, una volta segni eleganti di un mondo tendente alla conservazione, ora adattati con notevoli sforzi al mutare della vita, ma ormai incapaci di essere al passo con i tempi. Ci siamo abituati all’idea che professori e studenti debbano muovere i passi su pavimenti di inusitata bruttezza, che le pareti delle aule non possano che dare l’idea di sciatta noncuranza, che le tende alle finestre, quando ci sono (per fortuna quasi mai!), somiglino a panni lavati anni fa e poi dimenticati al sole ad asciugare. Allo stesso modo ci siamo ormai assuefatti ad un modello che prevede che i programmi siano immutabili e validi in ogni dove, che le lezioni debbano avere le stesse caratteristiche di quelle che ci annoiavano quando eravamo studenti, che anzi la noia sia indispensabile all’apprendimento, così come siamo certi che sia necessario continuamente misurare quanto gli alunni stanno apprendendo. Non abbiamo nessuna intenzione di liberarci dalla convinzione che la serietà della scuola si evinca dal numero di ore che gli alunni dedicano allo studio a casa, mentre forse sarebbe opportuno impiegare diversamente il tempo trascorso a scuola, durante il quale gli studenti sono solitamente poco attivi. Allo stesso modo non sono pochi i professori che ancora credono che siano i brutti voti a decretare la serietà dell’insegnamento e che il piacere di studiare sia sinonimo di cattivo funzionamento dell’istituzione. Spesso degli alunni viene premiato l’atteggiamento passivo, l’assenso assente di chi non dà problemi, ma non offre nemmeno soluzioni, né alcun contributo a rendere più viva la lezione.

La scuola dunque sembra essere chiusa in se stessa, poco propensa ad accettare il confronto con l’esterno, sicuramente insofferente di fronte alle richieste che arrivano dal mondo, da quello del lavoro, come dalle famiglie. Vale la pena di aggiungere che una scuola che dialoga sempre meno con la vita è una brutta scuola.

Per andare avanti, per confrontarci con quello che avviene in buona parte dei paesi europei, è necessario cambiare e farlo radicalmente. Ha scritto qualche giorno fa sul Corriere della Sera Luigi Berlinguer, ex ministro della Pubblica Istruzione, autore di una riforma allora boicottata e resa in parte inoffensiva, “oggi, nel secolo XXI, la scuola non solo deve formare la mente al rigore ma deve attrarre, deve presentarsi capace di far faticare nello studio, inesorabilmente, ma anche di suscitare gioia, emozione, di stimolare la creatività. Superare il monopolio del logocentrismo significa dare altrettanto spazio all’arte, all’espressività di ciascuno, al sogno, alla speranza”.

Senza creatività, espressività dei singoli, senza sogni e senza speranze non c’è scuola che funzioni. Senza bellezza, ed educazione alla bellezza, non c’è scuola. Bisognerebbe forse ripartire da qui.

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