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Josip Osti, poeta di Sarajevo

Una delle pagine più tristi della storia europea degli ultimi decenni è stata ricordata con la solita distratta e frettolosa modalità che nel nostro paese, e forse nella nostra civiltà, si riserva agli avvenimenti che disturbano le nostre coscienze e che contrastano con il desiderio di vivere comunque in superficie. La guerra in Bosnia ed Erzegovina cominciò nell’aprile di venti anni fa. L’assedio della città di Sarajevo divenne il cupo simbolo di un conflitto atroce e per tanti versi inspiegabile. A poche centinaia di chilometri dalle nostre coste venivano cancellati decenni di convivenza pacifica di fedi ed etnie diverse, che nella città bosniaca avevano avuto modo di confrontarsi e di dare vita a una cultura ricca ed originale.
Osti a Pistoia nel 2006 (foto Andrea Pecchioli)

Uno dei grandi interpreti di quel dramma è stato senza dubbio il poeta Josip Osti, nato a Sarajevo nel 1945, e che allo scoppio della guerra si trovava in Slovenia, dove tuttora vive tra Lubiana e il piccolo paese di Tomaj, a poche decine di chilometri dal confine italiano. Osti, durante il conflitto, pubblicò due libri di versi: Il libro di Sarajevo dei morti, pubblicato in Italia da Theoria nel 1997, e Il timbro di Salomone, nel nostro paese poi raccolto insieme ad altre liriche all’interno del volume L’albero che cammina, edito da Multimedia nel 2004. Entrambi i libri vennero inizialmente pubblicati nella doppia versione in serbo-croato, la lingua d’origine di Osti, e in sloveno.

Josip Osti è uno dei massimi esponenti del ricco panorama letterario dei paesi che sono nati dalla dissoluzione della Jugoslavia. Il suo mondo poetico si nutre di immagini e di situazioni semplici, tratte da vicende della vita quotidiana, spesso sviluppate attraverso un una modulazione di carattere narrativo. Il tono, apparentemente dimesso e senza dubbio di sobria inflessione, si produce improvvisamente in un lirismo di grande potenza evocativa, che nasce sempre dalle piccole cose, dai minimi accadimenti di ogni giorno, lasciando emergere da essi significati profondi e inaspettati.
E’ il caso, ad esempio, della poesia che riporto di seguito, tratta da Il timbro di Salomone. La traduzione è di Jolka Milic.
Non c’è più la tabaccheria all’angolo

Non c’è più la tabaccheria all’angolo. La tabaccheria
intorno alla quale ronzavo per giornate intere cercando
di vincere l’indomabile pudore giovanile, fino a quando non mi
feci coraggio e andai a comprare il mio primo preservativo.
Non c’è la vecchia tabaccaia che dalla mia mano sudata e
tremante prese la banconota e me lo diede con lo stesso gesto
lento con il quale mi consegnava anche le sigarette, comprate a
pezzo, per mia madre. Non c’è più la profonda voce vellutata
con la quale mi chiamò, come chiamava tutti quelli che
dimenticavano di ritirare il resto. Non c’è più il suo viso bonario
che pareva non cambiasse mai. Era uguale anche quando, dopo
parecchi anni, con l’eletta del mio cuore acquistai da lei qualche
dozzina di preservativi, pretendendo perfino quelli più grandi e
colorati che dopo, ridendo e scherzando, avevamo gonfiato
ornando con essi la stanzuccia dove festeggiavamo il capodanno.
Non c’è più la tabaccheria all’angolo, come non c’è più la metà
degli edifici del rione dove una volta abitavo.
(da L’albero che cammina, Multimedia edizioni)

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