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Il mondo di Lucrezio

Milo De Angelis, De rerum natura di Lucrezio , Mondadori

Più il nostro cielo si anima di presenze infinite e l’universo è spazio che non chiude, immensità di cui non possiamo vedere il punto da cui ha inizio e che non può avere fine, un luogo insomma senza centro e che manca di periferia, più il genere umano è assalito dalla vertigine del nulla. Più la miriade di atomi, di particelle minime che anima l’universo, si compone nella miriade degli esseri viventi e delle cose, delle stelle e dei pianeti, più è sotto i nostri occhi la bellezza senza uguali del cosmo e la sua incontenibile tragedia, più siamo affascinati e inorriditi dalla sua potenza e dalla nostra fragilità, che è in qualche modo anche sua, anche quella di tutto quanto l’universo.

Il fascino straordinario, e ancora oggi del tutto sorprendente, del De rerum natura, risiede nella disposizione di Tito Lucrezio Caro a parlare di tutto questo partendo da basi che sono innanzitutto limpidamente scientifiche, imbastendo un ragionamento di carattere filosofico e facendo emergere che la forza del pensiero, la sua capacità di penetrazione, l’acuta intelligenza nel mettere allo scoperto la realtà, risiede nella poesia. Abita nei versi quel passo doloroso e affascinato che smuove la coscienza e le permette di arrivare più a fondo.

La modernità del poema lucreziano, la sua capacità di parlare alle nostre conoscenze, alla nostra consapevolezza di uomini del terzo millennio, di riuscire ancora a farlo, forse con più forza di prima, è anche la ragione per cui per tanti secoli il De rerum natura venne dimenticato, affossato e cancellato, prima che a riportarlo in luce fosse l’umanista Poggio Bracciolini nel 1417. È questa modernità, poggiata sul connubio tra scienza e letteratura, tra severità del pensiero e qualità evocativa della poesia, a costituire la base su cui poggia la nitida traduzione del poeta Milo De Angelis, pubblicata da Mondadori nella collana Lo Specchio (pagg. 522, € 24). De Angelis, guardando all’esametro lucreziano, al linguaggio che fa dell’esattezza e insieme del phatos la cifra dominante del poema, predilige l’uso di una lingua controllata, di un linguaggio piano e lineare, che pure produce un effetto quasi struggente, riesce a commuovere proprio restituendo quel “tendere brancolante verso qualcosa che ci sfugge e che una forza ignota ci impedisce di raggiungere”, che è proprietà che pervade la poesia di Lucrezio, come sottolinea il poeta milanese nella bella introduzione. Nasce, in traduzione, un verso lungo o molto lungo, spesso superiore alle venti sillabe, con una musicalità trattenuta e capace di ripristinare nella nostra lingua quel misto di passione e lucidità speculativa propria del De rerum natura.

Del resto la traduzione è frutto di un lavoro durato anni, anzi di un rapporto, quasi un sodalizio a distanza di secoli, inaugurato con la tesina alla Maturità e proseguito con tappe varie, tra cui la pubblicazione delle traduzioni apparse nel 2005 per le edizioni SE con il titolo di Sotto la scure silenziosa. Scrive De Angelis: “Personalmente posso dire di avere pensato a Lucrezio e di avere abitato nella sua casa per un importante periodo della mia vita, posso dire che c’è stato un fitto dialogo con lui prima di trasformare il suo esametro, che per certe durezze risente ancora di una metrica arcaica, nel verso contemporaneo, lungo e ragionato di questa versione italiana”.

I versi di Lucrezio, che rileggono e ridanno sistemazione alle teorie di Epicuro e, con lui, di Eraclito, Anassagora, Empedocle, Democrito, ci portano in un terreno popolato dagli incubi che derivano dalla nostra stessa condizione di donne e di uomini al cospetto dell’universo infinito e insieme illuminato dalla bellezza e dallo stupore che deriva da questo contatto. Ne nasce una poesia che a tratti è visionaria, “al limite dell’allucinazione”, con una sua intrinseca e non risolta forza drammatica, che poco si apparenta con l’espressione dei poeti contemporanei, i neoteroi del primo secolo avanti Cristo. Di questa originalità, Lucrezio ha piena coscienza: “Non mi nascondo che si tratta di argomenti oscuri, / ma una grande speranza di gloria, con la punta del suo tirso, / ha toccato il mio cuore. E così mi sento invaso dal dolce amore / delle Muse, che mi spinge a percorrere con la mente in fiamme / terre delle Pieridi mai calpestate da passi umani. / E mi appassiona accostarmi a sorgenti ancora vergini / e placare così la mia sete, cogliere fiori mai visti prima, / incoronare me stesso con una ghirlanda meravigliosa / che le Muse non avevano mai messo sulla fronte di nessuno. / In primo luogo mi addentro nei temi più profondi e mi impegno / a liberare l’animo dagli stretti nodi del timore religioso. / E poi faccio splendere su un argomento oscuro versi luminosi / spargendo su ognuno di loro la grazia della poesia”.

Percorrere con la mente in fiamme” le terre ancora non calpestate non possono che fare pensare a tanta poesia più recente, che molto deve a Lucrezio, alla sua “sete di cogliere fiori mai visti prima”. Non si può non pensare a Leopardi, ad esempio, alla grandezza del recanatese di “adornare” di “versi luminosi” l’argomento della sua poesia, che ci mette di fronte, come in Lucrezio, al dramma dell’irriducibile ricerca di uno scopo, sapendo che esso non può esistere, e in questa terribile nostra fragilità scoprire il nostro limite e la nostra sola grandezza.

Il De rerum natura è il poema che parla del mondo, delle origini di tutto e della sua inconcludenza, del vano direzionarsi delle cose e della loro esattezza, sempre però destinata a trasformarsi, dei fenomeni naturali e delle loro cause, del loro splendore, della loro oscurità e della irresponsabilità di ogni cosa.

Pubblicato su Succedeoggi.it

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