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Guido, Amalia e le farfalle

Fa caldo a Torino il 9 agosto del 1916. In città si comprende di essere in guerra solo attraverso le lettere che arrivano dal fronte. E’ quasi il tramonto e le campane che suonano a festa sembrano riportare alle giornate gioiose dell’estate di qualche anno prima, quando, nel 1911, Torino, per celebrare i cinquanta anni dell’Unità d’Italia, aveva ospitato l’Esposizione Universale e la città aveva vissuto con fermento e grande vitalità le tante iniziative, anche di impronta culturale, che avevano caratterizzato la manifestazione.

Si festeggia l’entrata in Gorizia dell’esercito italiano vittorioso. Il suono festoso delle campane accompagna però, come un triste controcanto, anche la morte di Guido Gozzano.

Amalia e Guido

Due volte, in questa stessa giornata, Amalia Guglielminetti ha bussato alla casa torinese dei Gozzano. Due volte ha subito un rifiuto. La madre del poeta, la signora Diodata, anche su consiglio di don Silvestro, il sacerdote che un tempo aveva fatto parte della banda di artisti e scapestrati che si raccoglievano intorno a Guido, non vuole che la poetessa saluti suo figlio sul letto di morte, teme che la visita possa portare discredito alla famiglia e al poeta morente.

Il legame tra Guido e la Guglielminetti è cominciato nel 1907, all’indomani della pubblicazione de La via del rifugio. Tra Guido e la bella, giovane e affascinante “Saffo dalle chiome viola”, come l’aveva definita il critico Giuseppe Antonio Borgese, era nato un rapporto intenso e passionale, poi stemperatosi nei modi di una salda amicizia e di una forte stima intellettuale, soprattutto per volontà del poeta, che in quello stesso anno aveva anche saputo di essere malato di tisi e aveva cominciato a sentire accanto a sé la presenza di quella che chiamerà la “signora vestita di nulla”.

Nel novembre del 1909 Amalia scrive a Guido parole di tono amaro e di invaghita inquietudine, ma che sottolineano in modo chiaro cosa stesse diventando il loro rapporto:

Guido molto amato,

si può sapere in che mondo vivi? Da varie parti mi si chiede di te come s’io fossi la tua custode, ed io t’ignoro peggio di altri. (…) Fatti vivo, buon fratello cattivo e oblioso; dicono che sei a Torino, ma saresti così perverso da non farti vedere da me? Non mi vuoi più bene, lo sento! Vedi, mi lamento come una modistina abbandonata dall’amante e siamo tu celebre e io quasi, senza contare che ci amiamo di un amore puro. Scrivimi se sei a Torino o altrove, anzi vieni a trovarmi: voglio dirti tante cose, tante care cose sciocche, di quelle che si dicono fra persone intelligenti. Se non ti fai vivo m’offendo, te lo giuro, e rinnego la nostra fraternità. Ti bacio su una tempia: dev’essere un po’ cavata la tua tempia, credo. Addio.

Malgrado la volontà del poeta di sottrarsi alla stretta affettuosa dell’amica, Amalia continuerà ad essere una presenza costante e significativa nella vita di Guido Gozzano. Lui le scrive anche quando si reca in India nel 1912 nel tentativo di trovare giovamento per la sua malattia:

Amica mia sempre cara,

quanto spazio, quanto silenzio ha diviso la nostra amicizia! No, non l’amicizia, ché tu sei (e mai l’ho sentito come in questi mesi di remoto pellegrinare), fra i pochi spiriti affini che si ricordano con nostalgia anche a Ceylon, anche in quest’isola che ha la virtù di dismemorare di tutto e di tutti. (…) Ho per amici i consoli di Francia e d’Olanda con le loro famiglie e vado ogni sera dall’hotel alle loro ville, che sono contigue: nessuna galanteria, molta cordialità, molta musica (anche italiana), mentre dalle vetrate aperte giunge il coro rauco dei pappagalli, delle scimmie e il barrito stanco degli elefanti, che ritornano dal lavoro… Che strana vita e come ti vorrei qui con me.

Si incontrano ancora spesso nell’estate del 1914, quando Guido trascorre le vacanze insieme alla madre a Bogliasco, nei pressi di Genova. In una villa vicina a quella dei Gozzano soggiorna la Guglielminetti e si reca dall’amico sempre caro.

Negli ultimi mesi della vita Gozzano, da sempre attratto dal cinema, scrive un soggetto per un film sulla vita di San Francesco, che non verrà mai realizzato, ma soprattutto lavora a un poemetto di carattere didascalico sulle farfalle, che rimarrà incompiuto e che vuole dedicare ad Alba Nigra, il nome dietro cui si cela ancora una volta Amalia Guglielminetti.

Le farfalle del resto sono state da sempre un interesse del poeta, che in una lettera alla Guglielminetti del settembre del 1908 aveva scritto: “Immaginatevi che in un cassetto ho circa trecento crisalidi, ottenute dai bruchi allevati con infinita pazienza, per settimane e settimane”. Qualche giorno più tardi la metteva al corrente delle novità: “Le mie crisalidi sono tutte farfalle! L’ho scoperto oggi attraverso il reticolato del coperchio: ho chiuso le finestre e aperta la scatola ed è stato nella mia grande camera chiara, un frusciare turbinoso di prigioniere sbigottite”.

Nel poemetto si legge:

                               Ed io mi sono
quel negromante che nel suo palagio
senza fine, in clessidre senza fine,
custodisce gli spiriti captivi
dei trapassati, degli apparituri.
Veramente la mia stanza modesta
è la reggia del non essere più,
del non essere ancora. E qui la vita
sorride alla sorella inconciliabile
e i loro volti fanno un volto solo.

E ancora:

Voi contemplate, amica, la farfalla
infissa da molt’anni. Ben più dolce
è meditarla viva nel suo regno.
La rivedo con gioia ad ogni estate;
sfuggito all’afa cittadina, appena
giunto al rifugio sospirato, indago
con occhi inquieti lo scenario alpestre:
senza l’ospite candida le nevi
sarebbero per me senza commento.

Ma rade volte scende a valle. Giova
attenderla sull’orlo degli abissi,
fra gli alti cardi i tassi i rododendri.
In quel silenzio primo, intatto come
quando non era l’uomo ed il dolore,
ecco la bella principessa alpestre!
Giunge dall’alto scende con un volo
solenne e stanco, noto all’entomologo,
s’arresta sulle cuspidi dei cardi,
s’adonta di un erebia, d’un virgaurea,
suoi commensali sullo stesso fiore;
s’avvia, s’innalza, saggia il vento, scende,
vibra, si libra, s’equilibra, esplora
l’abisso, cade lungo le pareti
vertiginose ad ali tese: morta.
Dispare, appare sui macigni opposti,
dispare sul candore delle spume,
appare sopra il verde degli abeti,
dispare sul candore dei nevai,
appare, spare, minima… Si perde…
Parnasso Apollo!… Il genïetto lascia
un solco di mistero al suo passaggio.
Il volo stanco, ritmico, diverso
dall’aliar plebeo delle pieridi,
ha un che di malinconico e s’accorda
mirabilmente con la gamma chiara
dell’alte solitudini montane.
E il poeta disteso sull’abisso,
col mento chiuso tra le palme, oblia
la pagina crudele di sofismi,
segue con occhi estatici il Parnasso
e bene intende il sorgere dei miti
nei primi giorni dell’umanità;
pensa una principessa delle nevi
volta in farfalla per un malefizio…


Come farfalle sono spesso i personaggi femminili di Gozzano, sospesi tra il “non essere più” e il “non essere ancora”, tra il tempo della nostalgia e quello della fiaba, tra il mito e il “malefizio”. Come una farfalla Amalia si è posata sulla vita del poeta e vi ha volteggiato intorno. Guido l’ha sfiorata, poi ha temuto di farle male. Ha continuato ad ammirarla e a cercarla, a farla volare, perché “ben più dolce / è meditarla viva nel suo regno”.

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