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Attesa Stelle Disordine

Su richiesta del premio letterario Il Ceppo, presieduto da Paolo Fabrizio Iacuzzi, ho scritto un testo sulla mia poesia, in particolare relativa alla raccolta Il mondo che farà, a partire da tre parole che possano rappresentarne una chiave di lettura. Lo scritto, così come quello degli altri finalisti, è stato pubblicato sul web magazine Succedeoggi.

ATTESA È il tempo dell’attesa quello che meglio rappresenta la condizione umana. Così mi sembra ora di poter dire. Ci aspettiamo che qualcosa avvenga, che un evento si realizzi e ci sciolga, che dietro la curva ci sia la figura che possa salvarci, finalmente la soluzione. Chi ha consapevolezza di questo sa che viviamo costantemente su una linea di confine, aspettando di fare il passo che ci porti in quell’oltre, che potrebbe rappresentare la nostra vera vita e che forse nemmeno esiste. È questo il terreno fragile sul quale accumuliamo l’esistenza, costruiamo il passato, definiamo la nostra felicità, sempre pensando a quello che vorremmo accadesse, o che solo supponiamo possa accadere. Il mondo che farà è il luogo dove costantemente ci troviamo. Il nostro timido presente è in effetti un infinito futuro. A me interessa ancora di più, di questa nostra posizione, la percezione della sospensione, quel tempo in cui gli oggetti riposano, le lattughe nei mercati mostrano un loro sonnolento incanto, il giallo del semaforo ci conserva nell’indugio e ci mostra che “non c’è altra contrada / che quella esatta dell’inconcludenza”, rivela come ogni partenza sia inutile, e pure del tutto necessaria. In quel tempo rarefatto e apparentemente perso, la poesia ha il compito di dare un senso al mondo, di crearlo di nuovo, se anche è accaduto, ma appare del tutto inverosimile, che in un tempo remoto sia stato consapevolmente creato. Ci sono legami che la poesia individua e ricompone, o anzi compone per la prima volta, improvvisi clamori che si manifestano in quegli attimi di differimento e di ritardo, che i versi raccolgono, da cui si fanno sorprendere. È nella loro natura: nell’andare a capo scriteriato della poesia, nel lasciarsi condurre per mano dal ritmo (guai, per quello che mi riguarda, se così non fosse), si rimane sospesi, in bilico tra l’una e l’altra parola, tra l’uno e l’altro verso, in attesa che il prossimo endecasillabo ci dica dov’è diretto il mondo, che cosa ci raccontano le stelle.

STELLE Verso un luogo multiforme e senza centro si muove la poesia. Per quello che mi riguarda, l’ambizione più grande è ancora “noverar le stelle ad una ad una”, essere la sonda Rosetta che insegue la sua cometa “e continua ad andare passo dopo passo / verso il futuro in orbita perenne”. Nel continuo cercare e perdersi, nel perdurante tentennamento dell’interrogazione, ha sede la mia poesia. Le stelle raccontano la nostra storia di abitanti di un mondo alla deriva, distretto periferico di un organismo periferico di astri e di materia sconosciuta, che scivola con noncuranza e superiore vaghezza, in rotta di collisione, verso altre galassie, altri mondi da noi, altre periferie. Pcerchiamo risposte ed otteniamo informazioni, più lo spazio si allarga. Più si aggiunge realtà alla realtà, più diventa grande quello che non conosciamo e crescono le domande. Dinanzi alla frastornante impossibilità di trovare appigli, abbiamo inventato appoggi che ci mettano in condizione di sentirci meno fragili ed esposti, abbiamo costruito ormeggi, boe di salvataggio. Abbiamo finto che il tempo potesse essere ordinato in maniera lineare, che fosse possibile contare le cose, metterle in fila, nella speranza di arrivare a un punto di approdo: ci rallegriamo perché abbiamo inventato un dentro e un fuori, una brocca che possa contenere, un cucchiaio che sappia separare. Gli oggetti, che sono gli strumenti attraverso cui siamo diventati umani, in effetti servono ad ancorarci alla terra, a suggerire un confine che delimiti lo sterminato spazio circostante, a darci affetto con la loro presenza viva, a convincerci, con la loro stabilità, che esiste un assetto sicuro, mentre il pianeta che ci ospita viaggia a 1700 km/h intorno al suo asse, a oltre 100.000 nel suo orbitante vagabondare a una certa distanza dal sole. La poesia non può che dirci tutto questo, sistemarci, pacati e inconcludenti, dinanzi alla nostra inconsistenza e, nel farlo, ci raccomanda di perdere tempo, di non credere che esista un tempo, di rallentare la corsa, di guardare verso il cielo notturno, lì dove hanno sede tutte le incertezze, consapevoli che le risposte continuano ad apparire e sparire, a “pigolare” come stelle, come le comete e i pianeti che interroghiamo con i nostri telescopi, con i veicoli spaziali. Nella struggente, fatale corrispondenza tra gli astri e le cose, tra il lontano che sempre più si allontana e impone il destino, e il vicino che inefficacemente ci difende, i miei versi vorrebbero scoprire una frontiera che faccia chiarezza, “il punto fermo / che ci faccia sentire ancora a casa”. Mentre loro, le stelle, vivono gentili in un sublime, luminoso disordine.

DISORDINE Da sempre siamo occupati a mettere ordine nello scompiglio universale. Costruiamo teorie che vorrebbero dirci l’inizio, suggerire la fine, raccontare il prima e il dopo, sistemare gli eventi e gli oggetti. Quale meraviglioso stupore scoprire, nel frastuono variopinto della vita, nella provvisoria casualità dell’esistenza, nel mescolarsi forsennato di atomi e faccende, la possibilità di collocare le cose in una disposizione che riteniamo precisa, che consideriamo coerente con la nostra idea del mondo. In un mercato apprezziamo la sistemazione ordinata dei frutti e delle ceste, “l’utile disporsi / nello spazio assegnato delle mele / di arance e verze”. Sembra rasserenarci l’opportunità di mettere in fila, il credere sia possibile un elenco definitivo, la soluzione nella disposizione assestata: “intorno confusione / dei movimenti, gli aliti dispersi, / parole accatastate in dissonanza, / le foglie abbandonate alle bufere: / salvarsi è rimanere nella fila, / sentirsi al proprio posto nella serie”. La mia poesia oscilla tra l’incertezza della bufera e il sostegno dell’enumerazione. Inventare il mondo in questo caso è riconoscerlo nei mille ondeggiamenti, è dare un numero all’inconoscibile sequenza del firmamento, all’indisponente varietà delle cose. È per questo che conto ogni volta fino a undici e vado a capo. L’endecasillabo sorregge la mia ansia vacillante di comprensione, sembra assopirla e intanto la conduce al verso successivo. Nel conteggio da uno a undici, nell’ordine delle sillabe, è la risposta che non conclude mai il suo percorso, che sempre ritorna al punto di partenza, al “tempo traballante” della sospensione.

(Le foto presenti nell’articolo sono mie)

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