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Prove di vita

di Alessandro Fo

 

Un giorno, nella bella libreria di Pistoia Les Bouquinistes, deputata a dare nuovo corso a tesori librari già forti di un proprio passato, si vennero a trovare tre poeti per conversare del nuovo libro di uno di loro, Dal corpo abitato di Matteo Pelliti (Sossella 2015), regesto di trasferimenti e traslochi, con sismogramma delle correlate nostalgie, e ferite, e mappe di nuove speranze. Giuseppe Grattacaso scelse e lesse la poesia Parigi: «Le luci in alto dai soggiorni/ proiettavano un cinema domestico,/ la vita senza istruzioni per l’uso […]». E aggiungeva di nutrire anche lui la passione di trascorrere lungo la città, sorprendendo con meraviglia un gesto, qualcuno che ripone qualcosa, un improvviso scarto nel rigovernare… Dev’essere segretamente un tratto del DNA dei poeti, se anche il terzo fra sé rifletteva come in quell’«incanto dell’osservare gli altri vivere» (così si legge nella chiusa della lirica) si riassumesse in fondo il senso del proprio medesimo scrivere versi. Pochi giorni dopo usciva il libro di racconti di Giuseppe Grattacaso stesso: Parlavano di me.

Sono nove finestre, da cui si colgono segmenti di vita, tagliati da un punto A a un punto B presi a caso lungo una retta (per lo più di sofferenza), ma in modo tale che in quel minuscolo tratto si condensi – indipendentemente dal compiersi di una storia – un tagliente significato. La bella copertina di Elisabetta Scarpini focalizza tre simboli: l’ippopotamo che nella prima stanza (Hippopotamidae) costituisce il fulcro delle meditazioni e della pace di un guardiano dello zoo, rimasto vedovo e con un figlio ‘infelice’ a carico. Poi, la macchia rossa, sgargiante, del piumino di questo innocente che, di spalle, si perde anch’egli a contemplare il goffo ma poetico animale. E infine una bella ragazza in bianco e nero, un po’ discinta: la modella, partecipante seriale ai concorsi di bellezza, convocata nel quarto ed eponimo racconto a protestare con la madre, che, per diplomazia e quieto vivere, non l’ha difesa dalle maldicenze delle ‘altre’, di «tutte quelle troie svalvolate, che poi saremmo noi». In Opuscoli scritti da Dio seguiamo il debutto di un piazzista religioso, che però viene scambiato per il vecchio amico di un coetaneo appena defunto, e composto nella stanza attigua da una madre dolorosamente all’oscuro dei traffici di un figlio tanto indipendente. Affacciarsi nell’appartamento non significa così catechizzare, ma venire trascinato da questo ruolo imposto, tanto inatteso quanto ineluttabile.

Un sarto giunto al tramonto di una vita, di una carriera e forse anche del suo mestiere stesso, cucirà, nuovamente in forza di un equivoco, Ancora un vestito: non sa evitare di commissionarglielo il precario postino occasionale, preso, nel buio dell’atelier, per un autentico, estremo cliente. Un professore con la testa (al momento?) fra le nuvole, sfiorato dai suoi alunni – fra cui Giulia Bruni, che «lo guardava dal suo metro e settantacinque di magra timidezza» – sta per apprendere dal figlio che, alla cena di ieri sera per la vigilia della laurea, non seguirà nessuna discussione. Falso è il libretto, falso il curriculum: sono stati anni di finzione. Non importa. C’è sempre l’Acquario di Genova, per ritrovare un rapporto padre-figlio che sta laggiù, sommerso nel tempo (Perché dovrei aver paura?).

Così alcune vite si avviano su nuovi binari, per imprevedibili scambi, mentre altre ristagnano. Con La crepa seguiamo la sorda indignazione che si apre nel cuore di una giovane albanese prigioniera, insieme al padre e a molti altri sventurati in attesa di permesso di soggiorno, di una coda infernale, ispirata a soprusi e compiaciuto sprezzo di ogni solidarietà. Altrove, amori e compagnie giovanili si intrecciano, alternando distacchi e indifferenze (Come una pietra). Un’altra creatura ferita, un giovane ritardato e molto corpulento, è vittima del dileggio di alcuni tifosi, di ritorno dallo stadio in banda arrogante e violenta; lo salva, imbarazzandolo, la bellezza (Un’altra vita). Nel giardino di una casa al mare scoloriscono da anni uno scivolo e una bicicletta per Bambini fantasma, che (forse ora grandi altrove?) non esistono più.

Una scrittura delicata e commossa, sobria e incisiva come quella del poeta di Confidenze da un luogo familiare e La vita dei bicchieri e delle stelle (editi nel 2010 e 2013 da Campanotto), segue con affettuosa partecipazione queste prove di vita, colte per schegge, come da dietro i vetri di una finestra notturna illuminata – o forse delle vasche di un Acquario. E, alla fine, è come se fossero invece questi personaggi in cerca di luce a scrutare, seminascosti, Giuseppe nella sua esistenza. Forse per ottenere, reciprocamente confrontandosi, e poi riconducendosi al loro autore, una risposta alle loro domande ancora aperte – mentre l’autore, in una bella libreria della sua città, li pensa e, rivolto agli altri due poeti e a tutto il pubblico, confida: «parlavano di me».

 

L’immaginazione, numero 292, marzo-aprile 2016      

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