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Alfonso Gatto e la poesia del calcio

Alfonso Gatto ha seguito sempre con intensa passione gli sport popolari. Riteneva che fossero il teatro dove è ancora possibile il dispiegarsi di un’azione epica, il palcoscenico sul quale gli uomini possono nuovamente mettere in scena gesta gloriose e sforzi leggendari. Nella lettura così partecipe e indulgente che ne faceva il poeta, i protagonisti dell’impresa eroica erano comunque spesso i più deboli, i comprimari e i gregari. Oppure emergeva nel racconto dell’evento l’umanità nobile ma difforme dell’atleta di genio, capace di soluzioni impreviste e dunque a volte fraintese, proprio in quanto poeticamente discordi dal consueto. L’aspetto che maggiormente interessava Gatto sembrava essere tutto nella convivenza nello stesso fatto di sport del sublime e dell’ordinario, dell’intervento degli dei che porta verso l’alto e della fatica che invece incolla gli uomini alla terra.  

Il poeta sarà al seguito del Giro d’Italia nel ’47 e nel ’48 per l’Unità. Il serpentone dei ciclisti passa nel mezzo di città e paesi dove i segni delle devastazioni prodotte dalla guerra sono ancora ben visibili. Gatto segue le tappe su una macchina messa a disposizione dal giornale comunista, nella quale ospita il narratore Vasco Pratolini, inviato del Nuovo Corriere. Gli articoli di Gatto sono raccolti in un prezioso, e credo introvabile, volume curato da Luigi Giordano, Sognando di volare, pubblicato dalle edizione Il Catalogo nel 1983.

Gatto, come del resto Pratolini, era un grande appassionato di calcio, lo sport in cui vedeva un impasto di grazia popolare e di inventiva poetica, un’ultima possibilità di salvarsi, come scrisse, “con il gioco e con il genio dell’innocenza”. Di fronte alle imprese dei calciatori, la cui immagine era ancora ben lontana da quella dei divi che sarebbero diventati successivamente, il poeta salernitano era uno sportivo per nulla imparziale, tifoso accesissimo del Milan, tanto da prodursi in storiche dispute con un altro grande poeta di quegli anni, Vittorio Sereni, colpevole, agli occhi di Gatto, di tifare per l’Inter.   

Alfonso Gatto alla galleria d'Arte il Catalogo di Salerno con Paolo Barison,  Josè Altafini, Beppe Chiappella, il pittore Corrado Cagli, il gallerista Lelio Schiavone (foto Michele Adinolfi)
Alfonso Gatto alla galleria d’Arte il Catalogo di Salerno con Paolo Barison, Josè Altafini, Beppe Chiappella, il pittore Corrado Cagli, il gallerista Lelio Schiavone (foto Michele Adinolfi)

La palla al balzo, pubblicato dalle edizioni Limina nel 2006, contiene gli articoli che il poeta, complice Il Giornale di Indro Montanelli, dedicò al gioco del calcio alla metà degli anni Settanta.

A ricordare che il calcio non è solo quello che si gioca sui grandi palcoscenici sportivi e che la provincia italiana si ritrova la domenica pomeriggio in nobili stadi al centro di piccole città, è un articolo del settembre del 1975: “Io, in serie C, sono nato cresciuto e pasciuto, come si dice, e non ho mai dubitato che, a parlare di noi laggiù, e della nostra squadra femmina e popolana, era l’Italia tutta che dalla provincia e dalle piccole città ancora ignote traeva, al meglio dei suoi frutti, il buon seme della speranza e dell’orgoglio”.

Uno degli articoli pubblicati sul Giornale è di fatto una lettera aperta, ma anche una confessione di devota ammirazione, che Gatto rivolge a Gianni Rivera: “Il calcio è come la poesia – scrive -, un gioco che vale la vita. Voglio dirglielo: anche il poeta ha il proprio campo verde ove parole, colori e suoni vanno verso l’esito felice. Fa anche lui il gol o lo lascia fare, dando spazio alle ali, al lettore che gli cammina al fianco e che entra in porta con lui, nella felicità di avere colpito il segno. Può sembrare tutto facile, e lo è, per grazia ricevuta. Ma, a spedirla questa grazia, è il suo stesso cuore puro, il suo nome innocente, e forse anche il non sapere come ha fatto. La furbizia, tra noi, non sarà mai nostra”.

E’ bello che un poeta affermato, qual era allora Gatto, scriva ad un calciatore idolo delle folle da pari a pari, mettendo a nudo, con ingenua fragilità, il proprio entusiasmo infantile (“Lo so, forse le parole che scrivo sono parole troppo ingenue, ma altre non ne saprei trovare per un uomo puro che ha onorato l’intelligenza e la cultura nello sport, lasciandoci negli occhi la sua immagine di ragazzo invulnerabile”). Ancora più generoso è l’atto di considerare la poesia un’attività simile al calcio. Il poeta può fare gol solo se dà spazio alle ali, al lettore che gli cammina a fianco. La poesia nasce dalla grazia, a volte è atto inconsapevole, mai può nascere dalla furbizia. In ogni caso non può esserci poesia se non in compagnia di altri, pochi o tanti che siano, che siedono sugli spalti, negli stadi metropolitani o in quelli della provincia. Le poesia insomma, così come i gol, ha bisogno di compagni di squadra e di pubblico.

Pubblicato su Il Mattino – Salerno, 8 marzo 2016

 

 

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