Gadda, Santi e Sandro Penna negli anni Quaranta all’Antico Fattore |
Carlo Emilio Gadda |
a Carlo Emilio Gadda
Non ti voglio vedere vecchio
gli occhi fissi la pelle grinza
come ti ho visto alla tivù,
che sei morto ieri ventuno maggio;
nella stretta-serpe che gli strinse la gola.
Forse quando sarai
nella bara sarà meglio,
non flaccido smorto ottantenne,
sarai come quando mi portasti un giorno d’estate
la coperta da letto gobelin
e salisti le mie scale
col peso sulle spalle,
o quando ti scovai nell’atrio
di Santa Maria Novella
tra il rumore stridore dei treni
a guardare cùpido ansioso
chi ti sedeva accanto.
Sul lungarno una notte gridavi
contro il cielo nero e contro le tue nere fantasie,
io fuggi dalla tua solitudine,
perfino capii che quella stretta spalletta-sasso
era il rifugio della tua
esistenza sola e maledetta.
Non voglio ricordare più
la tua faccia gesso alla tivù.
Venga pure, verrà, il coro
di chi non conobbe i tuoi mali,
i tuoi libri saranno
il pasto delle arpie strutturali
delle parche sociologiche
de professori stilistici.
Neppure io forse saprò tenerti
nel muscolo rosso e inerte;
u sei ancora, m’illudo, nella via Blumensthil
perduto nella città remota e deludente,
lasciate le notti-nido del giardino d’Azeglio,
la brezza acida di Firenze,
il giro attorno alla vasca della Fortezza
dove si consumava la tua angoscia
– e la tua tenera viltà.