Claudio Pasi, La campagna dello zucchero, Il Ponte del Sale
La poesia, quando ha qualcosa da dire, cerca di dire come è fatto il mondo. Per farlo, per cercare di rimettere in ordine l’accatastato paesaggio che ha davanti, prende a volte strade impreviste, percorsi che costringono a strani tragitti. Ha bisogno, come in alcuni casi la scienza, di repentine deviazioni, di straordinari colpi d’ala.
La poesia s’inventa piccoli scenari, inaspettati protagonisti, storie imperfette e marginali per parlarci della realtà e della vita. Lo ha fatto, tanto per dire, Leopardi con la ginestra, che non è proprio un giglio o una rosa né insomma un fiore già di per sé altamente emblematico. Lo hanno fatto Pascoli rendendo eloquente una campagna animata da volatili d’ogni tipo e piante e arbusti di sapore quotidiano, Camillo Sbarbaro con i suoi licheni, Montale adagiando gli ossi di seppia sullo sfondo di un panorama mediterraneo “scabro ed essenziale”.
Claudio Pasi nel suo più recente lavoro poetico ci parla della coltivazione della barbabietola e della lavorazione industriale della radice in una fabbrica della pianura emiliana. La campagna dello zucchero (Il Ponte del Sale, € 16) è un poemetto in endecasillabi, composto di tre libri, che direttamente discende, per dichiarata ammissione dell’autore, dai poemi didascalici del diciottesimo secolo, quando anche i poeti, nel clima illuministico e raziocinante di quegli anni, si sentirono impegnati a spiegare, in lettere chiare e senza l’ausilio di orpelli trascendenti, quali sono i meccanismi che rendono possibile il funzionamento del mondo. Non si può d’altra parte dimenticare che anche Guido Gozzano, a inizio del secolo scorso, aveva tentato un’analoga riproposizione con il poemetto, lasciato incompiuto, dedicato alle farfalle.
È evidente che, se in pieno fermento illuministico, era possibile credere che la ragione avesse il potere di definire tutto con precisione e di offrire al lettore indubitabili certezze, oggi (e anche nello ieri gozzaniano entomologico) non è più così. La ragione da una parte ha appianato, dall’altra ha complicato e resa sempre più ardua la strada verso la comprensione della realtà.
Pasi costruisce un poemetto ricco di precise informazioni di segno scientifico e tecnico, sulle caratteristiche fisiche e sulle qualità specifiche della Beta vulgaris, sui procedimenti industriali di estrazione e di raffinazione del succo zuccherino ricavato dalle radici, sul trattamento conclusivo della cristallizzazione. Ci informa altresì che oggi sono diventati rari “i campi coltivati a barbabietola / che inverdivano un tempo le distese / delle nostre pianure”. Sono altre oggi le colture che occupano le campagne, più remunerative e in grado di affrontare meglio le richieste del mercato globale, tanto che gli stabilimenti produttivi “sono quasi scomparsi o sono stati / riconvertiti in zone artigianali / o di servizio, in centrali a biomasse, / in aree commerciali oppure, come / questo, del tutto demoliti”. Pasi insomma ci parla anche di fantasmi, di un’epoca scomparsa (che è poi quella dell’infanzia e dell’adolescenza del poeta, che è nato nel 1958 proprio in uno dei villaggi industriali creati a inizio Novecento accanto a uno zuccherificio) con i suoi riti e i suoi personaggi, di luoghi che non ci sono più, dei quali è possibile solo percepire un odore che si manifesta come una reminiscenza, una parvenza; ci racconta di archeologiche presenze dai cui ruderi, anch’essi ormai cancellati, emergono le ombre di vite che ci parlano di un’epoca lontana. Nel poemetto si alternano i tempi verbali del passato e del presente, che ci permettono di vedere le barbabietole rigogliose, gli uomini ancora al lavoro, la fabbrica funzionante, per dirci però che tutto questo non c’è più, rimane solo un ricordo che si materializza attraverso lo sguardo dei bambini di allora: “e ancora osservano / i nastri trasportatori salire / ripidi verso il cielo, a un labirinto / metallico di rulli, di ringhiere, / di ponteggi sospesi, scale pensili, / castelli di tralicci, ballatoi / che fa pensare a un luna park, e il rombo / ininterrotto e cupo degli impianti, / le ghirlande dei fari che s’accendono / a intermittenza, il fischio prolungato / delle sirene, i getti del vapore / che sbruffa dagli sfiati dileguando / nel buio, a loro tutto appare come / un bastimento pronto per salpare”.
La poesia de La campagna dello zucchero si muove costantemente sul terreno fertile, sulla linea di confine tra l’esattezza dei termini specifici e del lessico settoriale, la precisa descrizione del funzionamento delle macchine e delle fasi della lavorazione, e l’evocazione di immagini che nascono dalla memoria e disegnano paesaggi commossi e dolenti. Il lettore è chiamato, negli oltre duemila versi che compongono il poema, a vivere ‒ e questo genera inaspettata e intensa emozione ‒ circondato dal complesso e delicato gioco dei macchinari, ad ascoltare rumori e voci, a stupirsi dei movimenti di ingranaggi e persone, a godere di un paesaggio animato da esseri umani e cose che a distanza di decenni si ripropone allo sguardo intatto nelle sue rigorose combinazioni, e insieme ammantato del fascino speciale delle cose che mancano: “In silenzio giaceva ora lo scheletro / del colosso, svuotato dei suoi visceri / metallici, deflesse le campate, / caduti i muri interni, la carcassa / mucida esposta alle intemperie / (…) / alcuni pensionati zuccherieri, / muti, increduli, videro davvero / in quel cupo lamento di animale, / in quello schianto, un mondo che finiva”.
Ma non è solo questo. Lo zucchero ci porta in territorio alchemico, il luogo artificioso e complesso, dove le sostanze sono anche altro, dove ogni cosa non è mai definitivamente se stessa. Il mondo dello zucchero, come il mondo tutto, del resto, è cambiamento e trasformazione. Nel laboratorio chimico scintillano (e il luccicare delle immagini fa tutt’uno con la musicalità balenante delle parole) “cuspidi di burette, acuminati / contagocce, le scatole di Petri, / spatole inossidabili, cucchiai / ermetiche bottiglie smerigliate, / palloni, imbuti, prismi di cristallo, / provette in fila accanto alle bilance / di precisione, cilindri nei quali / galleggiano raggiere di densimetri / con il bulbo rigonfio : vetrerie / che di notte risplendono alla luce / fluorescente dei neon”. E poi ancora: “Fiale convesse, piene di emulsioni / opaline, di liquidi cerulei / (…) / curiosi vasi oblunghi a bocca stretta / (…) / i matracci dai globi iridescenti / di residui metallici distendono / i loro colli affusolati e gracili / oppure enfiati e larghi; serpentine / e storte di ceramiche e alambicchi / verdognoli si accostano a crogioli / di terracotta rossastra e fiammata”. Il poeta, rivolgendosi direttamente all’analista ventenne ‒ il chimico che appare quasi una fabbricante di vita e di senso ‒ lo prega di sciogliere e coagulare “le misture riversate / in capsule di ottone e suggellate / e poi messe a bollire”, di scomporre acidi e basi, di vedere nelle “mille combinazioni tra elementi / destini che si incrociano”. “Osserva – intimano i versi – come la materia / impercettibilmente si dilata / o s’indurisce, elimina la scorie / e si affina nel fuoco. Pensa allora / che l’opera che porti a compimento / altro non è che la tua stessa vita”.
Claudio Pasi forse ci dice che la vita è combinazione continua di elementi diversi, che si organizzano, e stabiliscono tra loro relazioni, attraverso il moto perpetuo di scioglimento e coagulazione. “Sale, zolfo, mercurio… Sciogli e coagula…”, conclude: e nelle note che fanno seguito ai versi il poeta ci ricorda come le tre sostanze costituiscano la triade alchemica di Paracelso, da cui, secondo il medico alchimista, ogni materia ha avuto origine.
Nell’ufficio tecnico di quello zuccherificio, dove il padre lavorava e dove a volte si recava ad accompagnarlo “le domeniche / piovigginose di novembre”, Pasi ricorda che, in una di quelle giornate autunnali, “mentre rivoli d’acqua scivolavano / sull’invetriata e raffiche di vento / squassavano le imposte”, cominciò a battere sui tasti di una vecchia Olivetti: “dal nastro nero apparvero sul foglio, / nuove ed estranee, le parole di una / poesia che avevo scritto, la mia prima”.
Ancora nuove, ma per nulla estranee, sono le parole di oggi. Pasi fa poesia, vera poesia, quella che dice come è fatto il mondo, in un contenitore apparentemente antico, ma ci parla in una lingua che è assolutamente quella adatta a comprendere chi siamo oggi. Ci parla di zucchero e ci dice come è fatta la vita. “Se tu li osservi al microscopio, / i cristalli somigliano a diamanti / sciorinati su un vetro, sfaccettati, / a spigoli taglienti, monoclini”.
Pubblicato su Succedeoggi.it