Federica Lorenzi, Un paesaggio del sentimento, Mimesis
La scrittura di Nico Orengo si è mossa attraversando ambiti diversi, tentando prospettive a tratti anche insolite, ma sempre manifestando fedeltà ad un proprio peculiare punto di osservazione sul mondo, servita da un linguaggio in grado di elencare la complessità della realtà, pur nei suoi aspetti minimi e più quotidiani, senza il bisogno di riportarla per forza ad unità, ma anzi sottolineando proprio la bellezza della varietà e della parzialità. Una scrittura infine sempre devotamente ancorata ad una terra e ad un paesaggio, sia quando si è espressa nella lingua della narrazione, con la quale Orengo ha senz’altro ottenuto i risultati migliori, o almeno quelli che hanno conseguito maggiori riconoscimenti, sia quando si è rivelata in quella della poesia.
Lo scrittore, nato a Torino nel 1944, ma sempre fortemente legato al territorio del ponente ligure, come dimostrano molte pagine dei suoi libri, si muove inizialmente nel clima culturale del Gruppo 63. Ben presto però percorre strade diverse, non più tendenti alla sperimentazione ma indirizzate alla costruzione di impianti e di modelli comunicativi di carattere più tradizionale. Nico Orengo ha scritto numerose opere narrative, tra cui vale la pena ricordare Miramare, il primo romanzo, pubblicato nel 1976, Figura gigante (1984), Dogana d’amore (1986), Le rose di Evita (1990), La guerra del basilico (1994), Di viole e liquirizia (2005), Islabonita (2009). Sono inoltre sei i libri di poesia pubblicati dal 1964 al 2000, tra cui spiccano Collier per Margherita del 1977 e Cartoline di mare, edito nel 1984, a cui vanno ad aggiungersi una quindicina i testi per bambini.
“Si tratta di una produzione corposa e varia, unificata da un elemento: la geografia”. Ce lo ricorda Federica Lorenzi nel corposo volume Un paesaggio del sentimento, edito da Mimesis e dedicato a Nico Orengo, narratore e poeta di Liguria, come recita il sottotitolo.
A poco più di dieci anni dalla morte, avvenuta a Torino nel 2009, la Lorenzi costruisce con scrupolosa capacità di analisi la prima monografia critica dedicata allo scrittore, attingendo ad un’ampia e molto interessante documentazione, tale da ricostruire il panorama culturale frequentato da Orengo. Lo scrittore infatti ha ricoperto ruoli di primo piano nel variegato e non sempre pacifico mondo letterario della seconda metà del Novecento. Si è detto della sua partecipazione, ancora giovanissimo, al Gruppo 63, che gli garantì le prime sporadiche pubblicazioni in rivista. Nel 1964 Orengo iniziò il suo lavoro di responsabile dell’ufficio stampa della casa editrice Einaudi, da cui si allontanò nel 1978, per divergenze relative alla politica editoriale. Dovette pesare però sulla scelta, e non poco, anche il rifiuto alla pubblicazione del romanzo Miramare, che venne poi edito da Marsilio. Nello stesso anno della separazione da Einaudi, Orengo avviò la sua collaborazione con il quotidiano La Stampa, di cui divenne, fino al 2007, responsabile del supplemento culturale Tuttolibri, in quegli anni al centro del dibattito culturale nel nostro paese. Dal 1986 Orengo ha fatto parte del consiglio di amministrazione del teatro stabile di Torino.
Nel dare conto dell’ampia produzione dello scrittore, Federica Lorenzi sottolinea come la sua opera, a partire appunto da Miramare, e dunque una volta liberatasi dal retaggio ideologico del Gruppo 63, pur nella sua varietà e articolazione, rimanga fedele ad alcuni elementi di poetica, che si ripresentano nelle diverse produzioni. Oltre alla costante ambientazione ligure, a cui si è accennato e la cui analisi costituisce l’ossatura del lavoro critico della Lorenzi, è necessario fare riferimento all’idea di fondo, continuamente riaffermata da Orengo ed evidente alla lettura delle sue opere, che concepisce la letteratura come lavoro artigianale, che nel primo romanzo si esprime attraverso la metafora del poeta come giardiniere. Attraverso tale metafora, sottolinea la Lorenzi, “l’autore afferma l’artigianalità del lavoro letterario: come il giardino ha bisogno di cure continue impartite grazie a una sapienza tecnica che si esprime di generazione in generazione, così la scrittura prende forma e sostanza grazie a un linguaggio carico di memoria e di tecnica, cioè grazie agli artifici della letteratura”.
Nico Orengo è tra i primi scrittori in Italia , per esempio con Gli spiccioli di Montale del 1992 o con Il salto dell’acciuga del ‘97, ma già in precedenza con Figura gigante, ad adottare una forma narrativa, ora molto frequentata, che mette insieme componenti fiction e non fiction (tra queste ultime, ad esempio, il saggio, l’aneddoto, la cronaca, l’autobiografia). Federica Lorenzi parla a tale proposito di “struttura narrativa non lineare e complessa: la narrazione procede per lacerti, microstorie tenute insieme da fili sottili che, come tessere di un puzzle, si sommano per ricomporre alla fine un quadro unitario”. Si tratta ancora una volta di un procedimento tipicamente artigianale che non incide in negativo, tutt’altro, sulla godibilità della lettura.
È il paesaggio infine, come si è ripetuto, a costituire il fil rouge che attraversa l’intera opera di Orengo, il paesaggio del ponente ligure, quel tratto di “estrema Liguria” ad un passo dalla Francia, dove lo scrittore si trasferì da bambino e dove trascorse gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. “Per Orengo – scrive Federica Lorenzi – il paesaggio è un archivio di memorie, un deposito di storie, perché conserva tracce dei fatti di cui è stato palcoscenico: degli eventi storici, ma anche di quelli minimi e quotidiani”.
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