
Tibet è il titolo dell’ultima raccolta di Roberto Carifi, che si compone di oltre cinquanta poesie, suddivise in dieci sezioni, che finiscono per svolgere, anche se non dichiaratamente, il filo di un poemetto di forte concentrazione lirica. La parola poetica segue il percorso dell’io nel suo progressivo dilatarsi, fino diremmo all’annullamento, in qualcosa che insieme lo amplia e lo sovrasta, lo spiega e lo nega. “Vidi e non vidi, poi cessai d’immaginare” è l’incipit di una bellissima lirica della sezione Le ferite di tutti, che si chiude con questi versi: “e solo perché diventavo puro / si capiva da che inferni ero passato, / tutto quello che fu chiamato terra / era andato in rovina, catrami e fossili, / rottami, e venivo accolto dove non c’era più nulla”.
L’adesione di Carifi al buddismo, già annunciata con il libro di riflessioni filosofiche Le domande di Masao del 2003, e poi confermata da La solitudine del Budda (2006) e da Il maestro e la compassione (2008), fa da struttura portante delle liriche della raccolta, che propone una sorta di cammino mistico verso un luogo senza confini e senza tempo, dove “non c’è più niente che esista”, ma dove ogni cosa può essere contemplata nella sua verità. La strada verso il Tibet, costellata di visioni e scandita da stazioni di posta che sono luoghi di penitenza e di conoscenza, conduce alla fine ad un punto, che è insieme fine e principio, il luogo della morte e del nulla, della conoscenza e dell’annullamento dell’io, dove gli opposti finiscono per comporsi, e dove infine si raggiunge finalmente la rarefatta atmosfera delle cime: “Poi si riaprono le conifere, respirano le foglie, / poi si diventa una cosa solo con i cumuli di neve, / anche i morti divengono sottili / e raggiungono con migliaia di esseri le vette più alte.”
La forza delle poesie di Tibet sta nel fatto che Carifi non appare alla ricerca delle parole che siano utili a dire la sua esperienza, ma sembra quasi abitato da queste parole, che lo raggiungono nell’atto infine libero della contemplazione e della profonda osservazione. Tutto quello che è accaduto trova ora la sua destinazione: “Del mio passato rammento i blu, / i cobalti delle ore in cui fiorivano i massacri, / e le madri che mi facevano fremere d’amore / mentre ora non ho che spirito, l’ancella del ventre / che mi balbetta dentro, / e sto con il lago a guardare il fogliame, / a cavarmi gli occhi per il troppo vedere”.