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Tutti gli affetti dell’ippopotamo

di Marco Bruna

 

Il nuovo libro di Giuseppe Grattacaso, salernitano, classe 1957, ha forse il maggior pregio che ogni autore vorrebbe vedersi riconosciuto: quello di raccontare qualcosa di noi. Tanto che il suo titolo, Parlavano di me (Edizioni Effigi), suona quasi programmatico, come se la voce narrante volesse ripercorrere situazioni ed esperienze che appartengono al vissuto quotidiano dei propri lettori.

La raccolta è composta da nove storie, tutte legate da un filo conduttore: la mancanza, la privazione di qualcosa a cui siamo legati e che da un giorno all’altro ci lascia soli. Una mancanza che può essere fisica, come la perdita di un affetto, oppure ideale, quale il venire meno di punti di riferimento che ci hanno accompagnato nel corso della vita e che ora fanno spazio a problemi a cui fatichiamo a trovare delle soluzioni. Così, i protagonisti, uomini o donne, giovani o di mezza età, sono alla ricerca di un sostegno, di sicurezze che li assillano senza tregua. Aspettano, in definitiva, delle risposte che non arrivano. 

C’è il padre, inserviente in uno zoo, che dopo aver perso la moglie si trova a vivere con un figlio nato con gravi problemi di salute e che nel proprio lavoro vede un motivo di conforto e di speranza. Gli animali di cui ogni giorno pulisce le gabbie diventano quasi figure consolatorie, come l’ippopotamo Tamidae, “che fa pensare a un animale vissuto in un’altra epoca” e il cui “essere fuori dal tempo mi sembra un attributo divino”. O si elevano addirittura a tipi umani, per esempio il macaco, che come gli uomini è sempre arrabbiato perché vorrebbe una vita diversa.

In un altro racconto assistiamo invece alla vicenda di un professore, Alberto Tommasini, cinquantenne lasciato dalla moglie che affronta la laurea del figlio come un evento sconvolgente, che lo trova impreparato a misurarsi con l’inevitabile distacco e il senso di autonomia che la crescita del ragazzo porta con sé. Fino alla scoperta di una verità che farà crollare ciò che Alberto considerava come un destino inesorabile.

Si avverte, nel libro di Grattacaso, un senso di inadeguatezza che accomuna tutti i protagonisti. E’ il caso delle due coppie che una sera a cena nella casa di villeggiatura di una di loro affrontano il tema dell’aver figli: è lì che una delle donne, Giulia, giunge alla conclusione amara che “se ci fossero dei bambini qualcosa rimarrebbe. Quando noi saremo vecchi, ricorderebbero particolari insulsi”. La memoria assume così i connotati di un elemento che permette di fissare nel tempo certe situazionia prima vista semplici e banali, che tuttavia riguardano da vicino il tema dell’identità, del riconoscersi in qualcosa. Ecco perché Parlavano di me è soprattutto un romanzo di affetti, che hanno il fine ultimo di colmare il vuoto da cui i personaggi cercano di fuggire. Ognuno di loro viene messo alla prova dalla vita, e ognuno di loro non riesce a capire se sarà all’altezza di affrontarla.

La Lettura, Il Corriere della Sera, domenica 3 aprile 2016

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