di Andrea Carraro
Vorrei dire qualcosa a proposito di un libro che mi ha molto colpito. Si tratta di una raccolta di racconti di un poeta noto che si accosta per la prima volta alla narrativa, anche se dalla qualità di questo libro non lo diresti: Giuseppe Grattacaso, il libro è Parlavano di me, Effigi edizioni, 171 pag., 12 euro. Di raccolte di racconti se ne parla sempre troppo poco in Italia, gli editori – grandi e piccoli – le guardano con sospetto e tendono a non pubblicarle con la scusa che non venderebbero (se ci si puntasse un poco di più, forse venderebbero – chissà!). È rarissimo che un libro di racconti si aggiudichi in Italia un premio importante. Tanto che sono stati creati dei premi a parte, del premi solo per il racconto (Il premio Chiara, Il Molinello…). Inevitabilmente, anche i critici, a meno che non siano opera di un autore affermato, guardano le sillogi di racconti con sufficienza, a parte pochissime eccezioni (Giulio Ferroni per esempio che ha dedicato alla forma-racconto molte pagine dei suoi saggi). E ciò in barba al fatto che la narrazione breve ha nel nostro paese un passato illustre, e che per tradizione è assai più congeniale ai nostri narratori rispetto alla forma-romanzo (più radicata nei paesi di tradizione protestante).
I racconti di Grattacaso possono definirsi in grandi linee come minimalisti, nel senso che parlano di individui comuni della provincia italiana (perlopiù toscana) in momenti in cui il flusso monotono delle loro esistenze viene minacciato/turbato da una qualche agente esterno – un lutto, una partenza, una rivelazione morale, una delusione familiare ecc. Impossibile non pensare ai maestri della short story americana (Carver, Cheever, Yates ecc.), ma anche, a casa nostra, al Claudio Piersanti de L’amore degli adulti, un libro importante ch’io considero una specie di paradigma del minimalismo italiano. E non è un caso che anche i racconti di Piersanti abbiano come sfondo la provincia (marchigiana).
Ma entriamo un po’ nel dettaglio delle storie e dei personaggi di Grattacaso per farci un’idea più precisa. Il primo racconto, il più lungo della raccolta, Hippotadimae, narra di un inserviente di uno zoo addetto a spalare letame dalle gabbie degli animali, sposato con una giovane immigrata, dalla quale ha avuto un figlioletto menomato, la quale in coda alla narrazione farà una brutta fine: «Quando sono tornato a casa, il piccolo era davanti al televisore. La vicina di casa mi ha salutato ed è andata via. Lui mi ha guardato, mi ha sorriso ed è corso verso di me. Non mi ha abbracciato. Non sa abbracciare, non lo ha mai fatto, ma io so quando è come se lo facesse. A volte, in uno slancio di grande affetto, mi mette le mani sulle spalle…». Il tema della menomazione fisica-mentale, che ricorre in altri racconti di Grattacaso (come il bellissimo Un’altra vita), mi ha fatto ripensare anche a un breve e intenso romanzo italiano degli anni Novanta dello scrittore-magistrato Giancarlo De Cataldo: Il padre e lo straniero. Anche lì c’è un genitore italiano alla prese con un figlio gravemente disabile. Anche lì il tema della disabilità si allarga abbracciando altre forme di sofferta “diversità”: i protagonisti stringono amicizia con immigrati (lì un nero, qui un albanese, Mansueto, collega dello zoo) nei quali trovano quella schietta capacità di identificazione, quell’empatia, che non riescono perlopiù a ricevere dai connazionali. Il tema della “diversità” variamente declinata (etnica, sociale, fisica, mentale ecc.) non solo è assai presente in questi racconti, ma a ben vedere ne suggerisce una chiave interpretativa. Si veda il monologo-confessione (alla madre insegnante) della ragazza protagonista del racconto che dà il titolo al libro, Parlavano di me, la quale sogna di passare alle selezioni regionali di Miss Italia e di sfondare in qualche programma televisivo come soubrette, ma le sue ambizioni sono frustrate dai chili in più che le fasciano le gambe e le cagionano sofferenza e una bruciante invidia verso le sue colleghe e compagne di scuola più magre, isolandola: «L’ho sentito con queste orecchie. Ha le gambe grasse, hanno detto, e tu eri lì, ad un passo da loro e non hai fatto niente, non sei intervenuta, non mi hai difeso».
Nel già citato Un’altra vita (che curiosamente ha lo stesso titolo di un film del compianto Mazzacurati ambientato nella periferia romana) Grattacaso racconta di un ragazzo grasso e ritardato, Gabriele, fatto oggetto di lazzi e vessazioni spietate da parte dei compagni di scuola e anche della gente sui mezzi pubblici e ovunque, che ha un incipit da narratore di razza: «Cercò di orientare la mole enorme del corpo. Si voltò con una leggerezza che per una volta non gli sembro una faticosa conquista. Assunse un’aria più seria e si raddrizzò sulla sedia, ma la sedia, che era troppo piccola per contenere il suo corpo, si sbilanciò all’indietro. Per un attimo Gabriele Daina perse l’equilibrio». L’autore opportunamente si affida alla rappresentazione, e nulla spiega al lettore. Gabriele si trova sul palco di un piccolo teatro e mette in scena se stesso, si racconta, davanti a una platea di altri giovani pazienti come lui che ogni tanto sghignazzano delle sue risposte (ma senza cattiveria perché sono sulla stessa barca, per così dire) e di dottori e addetti del suo centro assistenziale che lo incitano a parlare come in una seduta psicanalitica.
In un altro racconto assai bello, Perché dovrei aver paura, ci troviamo di fronte a un insegnante di mezza età che riceve in un’aula vuota della scuola la visita inaspettata del figlio che gli comunica a bruciapelo: «Papà, domani non ci sarà nessuna discussione della mia tesi». (…) «“Ho fatto solo cinque esami” continuò Cristiano. “In facoltà non vado da almeno due anni”». Il padre, cioè il protagonista della storia, che aveva organizzato già la cena di laurea e i festeggiamenti per l’indomani, non reagisce tuttavia con aspre rampogne, prediche minacciose, come ci si potrebbe aspettare, ma invece propone al figlio di accompagnarlo all’Acquario di Genova dove lo portava quando era piccolo. «Non gli importava nulla della tesi. Gli piaceva pensare all’azzurro tenue delle vasche. I pesci che arrivavano vicino, i bambini che mettevano le mani sul vetro».
Concludo con una breve considerazione sulla scrittura. La lingua di Grattacaso in questi racconti è casta, avara nell’aggettivazione, estremamente sorvegliata nell’uso delle metafore e delle similitudini, eppure anche, a suo modo, lirica: di un lirismo malinconico, crepuscolare, molto “italiano”, specie in certe descrizioni del paesaggio (che si riverbera negli stati d’animo dei personaggi).
Succedeoggi, febbraio 2016