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Parlavano di noi

di Alessandro Quattrone

Giuseppe Grattacaso, come poeta, ci ha già abituati a una poesia ragionata e musicale, cosparsa di osservazioni e riflessioni metafisiche a un tempo lievi e profonde e non di rado attraversate da una vena ironica. Con il suo esordio nella narrativa (la raccolta di racconti Parlavano di me) aggiunge frecce al suo arco espressivo e fa vibrare altre corde, in primis quella di una serietà tenera e amara, allontanandosi tanto dal mistero degli astri quanto da quello degli oggetti che ci circondano (al centro dell’ultima raccolta poetica La vita dei bicchieri e delle stelle), per dedicarsi esplicitamente alla fragilità degli esseri umani, al loro bisogno di pietà e di considerazione.

Se si subisce l’attacco della sventura, la vita quotidiana può diventare un inferno, un inferno in cui prima si rimane increduli, poi ci si agita e magari si prova a lottare; infine ci si arrende, e si indossa la veste dell’abitudine, sperando che a poco a poco si trasformi nella corazza della rassegnazione, per non sentire più sulla pelle la punta crudele dell’angoscia. Ma nella carne la ferita rimane aperta.
E come avvicinarsi a un uomo ferito se non si sa in che modo soccorrerlo, se non si possiedono gli strumenti e le medicine con cui occuparsi della sua debolezza?
Deve essere stato questo l’interrogativo da cui lo scrittore è partito per provare – se non a guarire – almeno a lenire le ferite dei suoi personaggi, e a permetterne la sopravvivenza con la dolcezza compassionevole di chi sa riconoscere il proprio simile, ossia di chi si sente rappresentato dall’altro. E la sua risposta etica e letteraria è stata quella di nobilitare le vittime, di raccontare – e così conservare – la storia di persone qualsiasi, rese importanti dalla sofferenza: perché – almeno – la loro sventura non finisca nell’abisso della dimenticanza.
Ma una risposta all’interrogativo iniziale si può cogliere anche nella scelta formale, che lascia trasparire lo spirito dell’autore attraverso un linguaggio capace di scandagliare e rappresentare i sentimenti senza cadere nel sentimentalismo, e attraverso uno stile che trova nella sobrietà del tono e nell’esattezza lessicale l’antidoto preventivo a uno slancio retorico-consolatorio che in genere si rivela tanto facile quanto artisticamente poco efficace.

Di fronte alla sventura umana lo sguardo di Grattacaso è fermo ma non impassibile, partecipe ma non invadente. Ed è proprio il senso della misura a rendere le sue storie più avvicinabili. La stessa composta (e ben celata) commozione dell’autore la prova il lettore, che è condotto dentro la vita di quegli sconosciuti che sono i personaggi (come del resto la gran parte delle persone che ci circondano) senza provare il senso di estraneità, indifferenza o addirittura rifiuto che spesso nasce di fronte alle miserie altrui.
Stiamo parlando di creature fittizie, naturalmente. Ma è noto che, quando le storie narrate riescono a raggiungere un grado di credibilità che le rende persino più “vere” di quelle reali, allora ci dimentichiamo di star vivendo un’esperienza virtuale, e qualcosa si muove dentro di noi proprio negli angoli più segreti, cioè più autentici. Non succede spesso. Ma quando succede si è grati agli autori per la loro coscienza artistica capace di utilizzare le virtù del discernimento e della discrezione. È questo – fra gli altri – il merito principale di Grattacaso: saper trovare in ogni racconto non solo lo spunto iniziale, ma anche i singoli momenti significativi che possono riassumere – nell’ambito di un episodio – il senso di una vita intera. Il racconto, come genere letterario, è rischioso proprio per questo motivo. È un azzardo: ci si gioca tutto puntando su un numero. La partita è vinta quando quel numero, cioè l’episodio particolare, riesce a contenere in sé il passato e il futuro di un personaggio, il quale spesso – se il lettore è dotato di personali capacità allegorizzanti, ma ancor di più di antenne in grado di captare certi ultrasuoni provenienti dal testo – non è altro che il rappresentante di una condizione universale.

Il libro è costituito da nove racconti. Il primo (Hippopotamidae), che dà subito la tonalità all’intera raccolta, è ambientato in uno zoo e incentrato sul personaggio di un inserviente, che osserva vivere gli animali e li descrive con precisione, meditando assorto in una specie di dolcezza contemplativa. È un padre che porta in sé due ferite – una ancora viva, l’altra che stenta a cicatrizzarsi – ma resiste con stoica e umile rassegnazione, compiendo il dovere quotidiano. Un piccolo eroe – un po’ filosofo, un po’ poeta – che continuamente passa dalla zoologia all’antropologia. E così l’ippopotamo, che “insensibile a tutto quello che gli sta attorno”, “indifferente, guarda verso un punto lontano” e spalancando le fauci mostra “la noia maestosa” del suo “sontuoso sbadiglio”, diventa quasi un modello di vita da ammirare o da invidiare.
La descrizione di questo anonimo monumento alla pazienza e della sua vicenda umana dai risvolti toccanti è condotta con calma e limpidezza. La tranquillità, oltre che nel tono generale, è nel linguaggio, e la scelta formale si rivela perfetta per fare da contrappeso al dramma intimo del protagonista, che non è mai urlato eppure brucia in profondità.
Nel secondo racconto (Opuscoli scritti da Dio) siamo di fronte a un altro dramma intimo, alla desolazione di una vedova che – dopo essere stata abbandonata dal giovane figlio per anni – se lo è visto riportare a casa da poche ore e si ritrova a vegliarne la salma tra sgomento e incredulità. Quando qualcuno bussa alla sua porta, crede che a visitarla sia un amico del ragazzo, uno che lo conosceva bene e che potrebbe darle tante spiegazioni. Ma in realtà si tratta di Carlo, un giovane predicatore religioso al suo esordio, indotto dalla situazione più ad ascoltare che a parlare.
Se nel terzo racconto (Perché dovrei aver paura?) troviamo un professore di fronte al figlio che gli fa una confessione deludente, alla quale reagisce con la pacatezza un po’ stordita di chi comunque può ritrovare nell’esercizio della funzione paterna un motivo di conforto, nel quarto (l’eponimo Parlavano di me) assistiamo invece al monologo rabbioso e frustrato di una ragazza che cerca di affermarsi a un concorso di bellezza, ma deve fare i conti con i propri difetti fisici, e rivolge contro la madre la propria furia accusatoria. Qui il tono cambia: Grattacaso non avvolge il dolore in un velo di pacatezza, ma lo lascia sfogare con accenti aggressivi che ne testimoniano l’insopportabilità, benché il tutto avvenga in un contesto fatuo. Perché esiste anche il dolore di non piacere, di non risplendere, ovunque lo si collochi, anche su di un frivolo palcoscenico.
Il malessere e la disperazione sono in tutti i racconti, a volte sotto traccia (come in Bambini o in Come una pietra), altre in modo più evidente e focalizzato, come in Un’altra vita, dove il protagonista – un adulto affetto da problemi fisici e mentali – è presentato con una tale delicatezza e comprensione, oltre che con una puntuale capacità di resa psicologica, da farci appassionare alla sua ingiusta sorte come se lo conoscessimo da sempre. D’altronde, questa è una delle virtù narrative di Grattacaso: riuscire a provocare prima empatia e poi simpatia nei confronti dei personaggi. Figure come il vecchio sarto di Ancora un vestito, o l’immigrato (e la figlia) del racconto La crepa, o altre già citate, rimangono dunque impresse nella memoria con tutta la loro pena.

La lettura di questi racconti ci fa ricordare qualcosa di cui siamo a conoscenza, ma che tendiamo ad accantonare o a respingere: l’uomo vorrebbe vivere in un giardino edenico, ma è esposto alle incursioni di un nemico inesplicabile, che lo lasciano a volte affranto altre smarrito, e sempre bisognoso di gesti di incoraggiamento, abbracci gratuiti e carezze anche sofferte.
Secondo le nostre spontanee aspettative, magari un po’ ingenue, le incursioni vengono fatte sempre con animo bellicoso, impugnando armi, appiccando il fuoco e urlando di ferocia e di trionfo davanti allo spettacolo della distruzione. I barbari della storia e della leggenda, dei romanzi e dei film, hanno sempre fornito stimoli e conferme al nostro immaginario. Sono i predoni che arrivano all’improvviso per portarsi via cose e storie, con il loro ghigno e il loro gusto del tumulto. Sono riconoscibili, sono proprio loro, i nemici, gli spaventosi nemici. Quando attaccano, agli inermi non rimane che scappare, perché la salvezza è nel movimento, nell’andare altrove, non in una impossibile resistenza.
Questo libro invece ci ricorda che durante la vita si incontrano più spesso altri nemici, non così riconoscibili, non così rumorosi e spietati, ma altrettanto implacabili nel loro silenzio e nella loro invisibilità. Nemici in grado di lasciare dietro di sé desolazione e sconforto. Hanno un solo nome (sventura) e tante facce (abbandono, sconfitta, frustrazione, delusione, solitudine, scontento, tristezza, malattia). E dopo il loro devastante passaggio un senso di calma – di pace, sembrerebbe – si diffonde nell’aria con un acre odore di fumo.
Delle incursioni di questi nemici silenziosi e invisibili sono vittime appunto i protagonisti dei racconti di Grattacaso, esseri umani paralizzati, senza via di fuga, coscienti dell’irrimediabilità della loro sorte sia quando protestano rabbiosamente (come la ragazza di Parlavano di me) sia quando accettano la loro condizione rifugiandosi nella caproniana “disperazione calma” (come fa l’inserviente di Hippopotamidae).
Così, storia dopo storia, si delinea un universo costellato dalle tante forme della sventura, ma anche dalla difficoltà delle relazioni umane. Sartre ha scritto che l’inferno sono gli altri. E un anziano inserviente di origine straniera, nel citato Hippopotamidae, parlando degli “occhi cattivi” dei macachi in gabbia nello zoo, raccomanda all’amico: “Non dare mai spalle a macaco. Macaco è come persona. Uomini sono tutti arrabbiati perché vorrebbero vita diversa.”

Se il compito di un libro di narrativa è quello di coinvolgere, allora Parlavano di me è riuscito a trasmettere la sensazione forse più gradita al lettore, cioè che i racconti parlassero di lui sotto altre vesti e in altre situazioni. Cambieranno pure i tempi, le biografie e le circostanze, ma tutti gli uomini qualche volta provano lo sconcerto di essere vittime di forze avverse, che si tratti del destino o della natura, o anche soltanto della volontà altrui: forze barbariche senza spade e senza grida, che irrompono in una vita tranquilla e fiorita come un giardino per ridurla a un deserto. In attesa di ricominciare, malgrado tutto. In attesa di ricostruire con la paziente lentezza dei saggi. E in attesa che arrivi qualcuno a rivolgere uno sguardo, a comprendere, e forse anche a salvare.

Carteggi Letterari, 17 luglio 2016

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