di Luigi Fontanella
Conoscevo pochissimo la poesia di Giuseppe Grattacaso, di origine salernitana ma da parecchi anni residente a Pistoia. L’occasione di approfondire il suo lavoro me la fornisce ora un suo libro (Il mondo che farà, Elliot edizioni, 2019), che ho trovato molto denso e coinvolgente.
La poesia di Grattacaso colpisce subito per la forte capacità osservativa, che si intreccia con un incessante moto riflessivo. È come se ci fosse una stridente contrapposizione tra la staticità dell’io osservante/riflettente e l’inane brulichio che gli pullula intorno. Questa disposizione genera una sorta di sdoppiamento psichico, fra una leopardiana «noia morale» da un lato, e «smarrimento esistenziale» dall’altro, di fronte al nulla dei giorni, di fronte al nulla dei giorni, e a un dio lontano, immemore del suo stesso creato (si leggano in particolare i testi a p. 31 e a p. 33).
Svevianamente (penso a certe pagine straordinarie della Coscienza di Zeno e, forse, ancor più, sia a quelle della Rigenerazione sia a quelle del racconto La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, gemma assoluta della novellistica del nostro Novecento), l’autore vive una specie di vita riflessa nella quale fantastica, ad esempio, attraverso gli oggetti, le suppellettili, o perfino attraverso un fiore, come l’ortensia (proprio così egli titola una delle più belle e struggenti poesie di questa raccolta), la possibilità dell’uomo di rigenerarsi periodicamente: «Potremmo anche noi vivere meglio / ogni sei mesi, come fa l’ortensia, / perdendo forza e poi recuperando / lo smalto ed il vigore, giovinezza / in ogni petalo, ricrescono i capelli, / la carne si rassoda in nuove foglie / di prestante spessore. Tutti vecchi, / tutti giovani insieme, senza linfa / respirando a fatica o tutti audaci / nel corpo che non teme senescenza. / Nella stagione triste penserei / domani rifiorisco, non più rughe, ma foglie luminose e infiorescenze, / che voglio di un colore bianco e azzurro» (p.34). Endecasillabi di ritmo suadente ed in-ludente, che mi fanno venire in mente una recente raccolta di Gianfranco Lauretano, significativamente intitolata Rinascere da vecchi (puntoacapo, 2017).
Da questa angolatura nasce anche la consapevolezza che forse l’unica “libertà” di cui si può disporre è quella che si attua in uno spazio per necessità limitato; un concetto, insomma di libertà condizionata, o di “libertà pesante”, come l’avrebbe chiamata il mio amico professore di filosofia morale Franco Lombardi alla Sapienza di Roma.
A quest’altezza, si fa strada, nella poiesi del Nostro, un certo pessimismo, che trapela in particolare nella quarta e quinta sezione, con il rischio, qua e là, che l’autore si (auto)avvolga, guardingo e circospetto, nei suoi ragionamenti solipsistici; ragionamenti, cioè, privi di concreti riferimenti umani, quasi essi fossero rivolti solo agli oggetti, ai luoghi d’affezione (“il sex appeal dell’inorganico”, come avrebbe detto Mario Perniola) o finanche ai semplici muri domestici che ci sono accanto, inerti e silenziosi, mentre il nostro andare nel viaggio della vita si fa sempre più solitario e pressocché vano («[…] Per chi vagava, aderire al muro / diventava il progetto, la fatica / di ogni viaggio, come edificare / altra parete accanto a quella vera, / all’interno di invisibile trincea».
Credo che anche da ciò derivino i versi ragionativi di Grattacaso, ben concatenati ritmicamente e fonologicamente, che danno luogo all’effetto di straniamento, come di chi, insomma, assistendo impotente allo scorrere del mondo, ne colga le contraddizioni e le assurdità, ma che le recepisca come in un film muto, a lui indipendente e inesorabilmente distante.
Da qui, il senso della transitorietà, che porta alla dolorosa coscienza del superfluo che cionondimeno costella quotidianamente la nostra esistenza e che il poeta può solo testimoniare, con la percezione (magari visionaria) della rudezza inerme del nostro Esserci. Cito esemplarmente questa poesia, per me uno degli apici di tutto il libro:
C’è tanta luce in casa di mio padre
che quasi acceca, risplende nella stanza
dove lui siede, forse con le tende
sarebbe meglio dico, lui non sente,
non può sentirmi, ora è residente
al cimitero di Salerno, tende
non ne servono più nella sua casa,
da cui andranno via anche le sedie,
di troppo le parole ed i pensieri,
non ci saranno più tazze e bicchieri.
Laddove la consapevolezza si riduce ulteriormente al sapere di non potere carezzare l’idea di un ritorno, ma solo cogliere con lo sguardo mentale ciò che resta oltre il noi: una foto, una candelina, una qualsivoglia pinzillacchera, un compleanno o una festività che si «replica in eterno»; cose e cose “animistiche”, dotate di una loro vita, di una loro desolante ma vivissima autonomia in presenza («C’è ancora la presenza delle cose»), a testimoniare l’eterna ciclicità, magari anche si un solo attimo «che vorremmo durasse, quota zero / che festeggiamo, lì finisce il tempo / ed ha principio il mondo che farà».
Nel complesso, e in definitiva, un bellissimo libro di poesia, sicuramente uno dei più coinvolgenti e incisivi di quest’anno.
Le riflessioni di Luigi Fontanella, poeta e Professore Emerito di Lingua e Letteratura Italiana presso la State University of New York, sono raccolte nella rivista Gradiva International Journal of Italian Poetry n. 56 Fall 2019, all’interno della sezione Libridine. Divagazioni su libri ed eventi e sono datate Firenze 22 giugno 2019. Il titolo di questa pagina è mio. La foto sul titolo anche.
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