Mario Vargas Llosa visita l’Osservatorio astronomico delle Canarie presso l’isola La Palma, la più piccola dell’arcipelago. Di fronte alla luce che “non è di questo mondo”, ma è “quella di lassù (…) quella che emettono o emisero milioni di anni fa gli astri che navigano (o navigarono prima di scomparire) per l’universo infinito”, il premio Nobel per la letteratura sembra preda di uno stupore che è quasi paralisi.
Nell’articolo pubblicato da El Pais e da Repubblica (venerdì 14 luglio) racconta dello spettacolo notturno “quando il cielo si popola progressivamente di un’infinita miriade di stelle, costellazioni, pianeti, luci che scintillano”.
Negli ultimi anni ho scritto spesso di stelle, del rapporto così pieno di incognite che lega noi piccoli uomini disperatamente bisognosi di approdo e di certezze a quel mare di luci, che è insieme il nostro presente e il passato più remoto e indecifrabile. Mi è sembrato che il cielo fosse uno spettacolo immenso e disordinato, il luogo del fascino e dall’angoscia, la dimostrazione palese di quanto inconcludenti fossero le ricostruzioni dell’esistenza del cosmo tentate dalle religioni, come mediocri fossero addirittura gli dei stessi di fronte alla grandezza di quello che avrebbero creato. Ho scritto di stelle e di oggetti, del disperatamente lontano e dell’immediatamente concreto e vicino, sperando che la poesia, che non sa dare risposte, potesse suggerire almeno le domande necessarie.
Mi conforta ora leggere l’affermazione di Vargas Llosa per cui “nulla è tanto simile alla letteratura quanto l’astronomia perché in entrambe l’immaginazione è importante quanto la conoscenza e che, senza la prima, la seconda non farebbe alcun progresso”. E’ vero, ma penso che si potrebbe aggiungere che senza l’astronomia, anzi senza la scienza più in generale, anche la poesia sarebbe più lenta a capire e a porre quesiti. Non è forse un caso che una delle prime opere di Leopardi sia stata una Storia dell’astronomia, composta quando il poeta aveva quindici anni.
Vargas Llosa chiede agli astronomi che l’accompagnano se non sia paralizzante vivere quotidianamente a contatto “con lo smisurato infinito, quel tempo senza tempo che è l’eternità”. Per questo, risponde, è nata la teoria del Big Bang.
Insomma gli uomini cercano da sempre di mettere in ordine gli oggetti dell’universo, di dare un senso alla materia infinita, che ancora conosciamo in maniera soltanto molto parziale. Succede però che più aggiungiamo elementi alle nostre conoscenze, più il cosmo diventa grande, più le nostre certezze traballano, più la scienza è costretta a rivedere le proprie posizioni. Non c’è nulla di più scientifico che l’errore: quello che un tempo era assodato, oggi è addirittura deriso; e quanto oggi è dato per indubitabile, in un domani nemmeno tanto lontano sarà visto solo come un passaggio verso un presente di verità.
La poesia sa bene tutto questo e si muove spesso in quel terreno di confine tra fisica e metafisica, tra gli oggetti che animano la nostra vita quotidiana, che ci sforziamo di disporre in buon ordine, e quelli lontani decine, centinaia o milioni di anni luce, a cui disperatamente cerchiamo di dare una sistemazione, in modo che cominci ad essere palese per noi il senso della loro presenza.
Per quello che ne so, la poesia trova le parole tra la brillantezza dei bicchieri e il luccichio delle stelle.