La forza che emana dalle pagine narrative di Andrea Carraro risiede innanzitutto nella volontà di guardare la realtà, anche nei suoi aspetti più spiacevoli e degradati, senza pregiudicare la nitidezza dell’immagine per mezzo di filtri edulcoranti e dunque senza imporre al lettore facili scorciatoie. Ne sono testimonianza Il branco, il suo romanzo più noto, pubblicato nel 1994 e diventato poi film con la regia di Marco Risi, L’erba cattiva, e i più recenti Il sorcio e Come fratelli.
Scegliendo come strumento di comunicazione il linguaggio della poesia, Carraro agisce in maniera analoga. In Questioni private (Marco Saya Edizioni) lo scrittore arriva diritto al cuore delle vicende appunto private a cui il titolo fa riferimento, che sono poi quelle dettate innanzitutto dai rapporti interpersonali, a cominciare dai vincoli familiari. Nella forma del poemetto, e attraverso una prosodia che richiama alla lingua della narrativa e fa leva su un ritmo sempre serrato e sapientemente scandito, Carraro affronta delicate vicende personali, attento a non lasciare che la parola letteraria diventi pretesto per costruzioni che approdino a infingimenti e simulazioni. La volontà è quella di lasciare intravedere il lungo travaglio interiore e di elaborarlo senza rischiare in nessun momento di scarnificare o di mitigare il nucleo esistenziale di partenza. Lo sa bene l’autore che di fronte alle critiche degli amici alla lettura del suo poemetto a loro dedicato, contrappone l’inevitabilità della confessione a cui si accinge: “Guardati dalla nostalgia fine a se stessa / Andrea non è da te / Ho detto l’uno / La poesia allude non dice / Siamo al grado zero / Ha detto l’altro / Ma tu hai continuato / Non per ripicca / Ma perché t’è necessario / Come l’aria / Per andare avanti”.
Nel primo dei cinque poemi che compongono la raccolta, Ode al padre, che è anche quello dal nucleo tematico più compatto, Carraro rivisita il rapporto conflittuale con la figura paterna, inserendosi in maniera in parte inusuale in una significativa tradizione, soprattutto novecentesca, che ha relegato contrapposizioni e dissidi prevalentemente al settore delle opere narrative, lasciando invece alla poesia un’ispirazione più pacificata ed elegiaca. Andrea Carraro si muove su uno scivoloso terreno di confine, mettendo a fuoco la figura paterna negli ultimi anni della vita, quando la distanza tra genitore e figlio si fa più marcata, più insofferente l’atteggiamento del figlio e più evidente e doloroso il suo complesso di colpa. Il padre ha scritto un brutto romanzo autobiografico e chiede al figlio romanziere, assurto a una qualche notorietà dopo la fortunata traduzione cinematografica di una sua opera narrativa, aiuto e sostegno nel tentativo di pubblicazione. “Quell’uomo lì che ti ha rovinato la vita / E ormai lo sa con certezza dai tuoi libri / Pretende oggi di farsi leggere da te?” – scrive l’autore rivolgendosi al se stesso di qualche anno prima. Il gioco è quello di un continuo, mai completamente sereno, scambio di ruoli, cominciato già anni prima, quando il figlio appena adolescente si allenava a copiare la firma del padre per poi utilizzarla nel libretto delle giustificazioni scolastiche, “Perché ti dava una strana forza / Prendere per un lampo il suo posto / Incarnarlo lui com’era nel mondo / Imponente e grande ai tuoi occhi di marmocchio”.
Ma il padre è anche la persona amata incondizionatamente durante l’infanzia “insomma colui che hai imitato e adorato / E aspettato sotto le coperte / E abbracciato nel mare tra il salmastro e l’acqua di colonia”; più tardi è sempre, sia pure tra tante incomprensioni, una figura da amare “appassionatamente come si può amare / Un padre che senti che se ne sta andando per sempre / E che di suo non resterà niente / Se non un ricordo pieno di vergogna / Come se tu l’avessi ucciso / Come se davvero il cancro gliel’avessi procurato tu”. La poesia diventa per questo un estremo tentativo, contraddittorio e a suo modo inevitabile, di liberarsi della figura paterna, di affrancarsene per sempre, e insieme di legarsi ancora di più ad essa: infatti, confessa infine Carraro, che il poemetto nasce dalla volontà di parlare “del padre mio che è morto / Da sedici anni / E ancora non posso congedare”.
I versi di Andrea Carraro raccolti in Questioni private compongono proprio una sorta di articolato poema del congedo, che nasce dallo sforzo di fare i conti non tanto con il passato, ma con quello che del passato ancora si manifesta, in ogni vita, sotto forma di fantasmi, di nostalgia, di un atteggiamento mentale che non riesce ad adattarsi al cambiamento. Quello che non c’è più attrae e finisce per perseguitarci, a non darci pace, proprio quanto più ci sembra ormai lontano, tanto da provare un senso di rimpianto anche per i momenti spudorati e difficili, come si evidenzia spesso nell’Ode agli amici. Il tentativo di strapparsi dagli altri, di lasciare finalmente il passato a se stesso, nasce in effetti dalla volontà di separarsi da una parte di sé, di lasciare che il tempo ci raccolga diversi da quello che siamo stati.
Gli amici così risultano perduti, ma ancora presenti nella vita di chi scrive “E se tutto sfuma / In oleografico quadretto / Non me ne può fregare di meno / Perché l’ho detto e ridetto / Questa roba qui non è per loro / Dico per i critici / Che tutto sanno che tutto hanno letto / Sempre pronti a sbuffare / A alzare il mento / Ma solo per voi amici”.