di Franco Manzoni
Circospetto si aggira quasi fosse capitato da solo in una sala giochi immaginaria, in un frigo alle soglie dell’abisso, in un centro commerciale sardapanalesco o in una scatola magica priva di confini. E’ l’osservatore smarrito che tenta di giudicare il senso dell’esistenza tra ammassi di luce, galassie, eternità presunte, schiocchi di fringuelli, fastidiosi mosconi, lucertole in fessure da letargo, fumanti grigliate da salsicce, lenzuola, cucchiai e altri oggetti del quotidiano.
L’io narrante scettico, che viaggia sempre portando con sé quel sorrisetto pungente ed agro volto a umiliare l’essenza umana, a provare pietà pur schernendola nel vederla giorno dopo giorno svaporare, è il protagonista della silloge La vita dei bicchieri e delle stelle di Giuseppe Grattacaso. Non a caso in epigrafe l’autore, nato nel 1957 a Salerno, sceglie due poeti e altrettante citazioni con cui cimentarsi. L’analisi finita ma illimitata di Leopardi, il quale nelle pagine del suo celebre Zibaldone annota a Firenze il 20 settembre 1827: “Il credere l’universo infinito è un’illusione ottica”. Ed accanto l’idea di invenzione dell’esistente, estratto a poco a poco dal vuoto del nulla, di Alfonso Gatto nel distico: “C’è sempre un giorno che il creato crea / se stesso e gli occhi e il modo di guardare”.
Forte di una saggia strategia stilistica e dall’abile andatura endecasillabica, Grattacaso analizza con sarcasmo le impalcature della vita: una sequela di immagini in costante mutazione e straniamento. Anche Montale lampeggia qua e là, ruminato forse inconsciamente. Il terribile male della nostra civiltà consumistica, l’alienazione, prelude a temi distopici, legati al futuro prossimo.
Non resta che abbandonarsi in forma di preghiera al dono di Bacco: “Lasciate il vino dentro il mio bicchiere, / così parlo di stelle e di comete, / scrivo d’amore, insomma le parole / sembrano scintillanti universali, / si trovano da sole, sanno loro / la strada da percorrere / … / Se scelgo l’acqua fresca o la spremuta, / sto certo meglio, ma faccio scena muta”. E il tutto procede in chiave ironica, in particolare l’antitesi tra anima e corpo. Grattacaso sottolinea quanto sia importante avere una materia in cui persistere, anche se ormai si tratta di carne consumata, mentre l’anima è pura evanescenza, energia sottovuoto fatta passare per eterna.