Il titolo del nuovo libro di poesie di Renato Minore, O caro pensiero (Aragno editore), rimanda senza che se ne possa dubitare a Leopardi, per quel vocativo che risulta così singolarmente ottocentesco, per il “caro”, che è aggettivo caro appunto al recanatese, e soprattutto per il riferimento al pensiero, modalità e strumento letterario associabile all’intera opera del poeta de L’infinito. E’ come se Minore, che di Leopardi è biografo con il fortunato Leopardi: l’infanzia, le città, gli amori, concedesse al lettore una prima chiave di lettura, che è quella che conduce ad una poesia che preveda sempre un pensiero che la sostenga, un ragionamento che la alimenti, pur in una dimensione che vuole essere senz’altro e prima di tutto lirica.
Va da sé comunque che l’afflato lirico di Minore, come ricorda Raffaele Manica nell’introduzione al volume, si muove a partire da una tensione che si vorrebbe latamente narrativa. E’ come se l’occhio del poeta guardasse continuamente intorno alla ricerca di storie da raccontare e che però scegliesse, per narrare, la forma e il ritmo della versificazione. Le vicende, d’altro canto, sono assorbite senza che sia possibile restituirne l’integrità, perché ogni pretesa di offrire pienezza a una storia rimane, sembra dire il poeta, atto vano di presunzione. Ogni storia è di fatto fin dalla sua origine scompaginata e scomposta, sotto qualsiasi forma essa si presenti, e ancora di più appare disordinata se la vicenda che si vuole raccontare proviene dal passato o se si manifesti con i connotati della quotidianità, che lungi dall’essere rassicurante, nei versi di Minore si rappresenta in tutta la sua ambiguità e irriverenza. E’ la realtà, per sua stessa natura, a non offrire sponda, a presentarsi con fattezze smembrate ed arruffate, irriducibile ad ogni ipotesi di coerenza e di sviluppo lineare.
Il pensiero dunque, a cui si fa riferimento nel titolo e che invoca il poeta, non può che tentare di offrire una spiegazione a questa insensatezza della realtà. Il compito del poeta è mettere insieme i pezzi del racconto, salvo poi ritrovarsi a spiegare che è proprio nella vertiginosa agitazione del mondo, nella confusione con cui sono disposti i frammenti che lo compongono, il senso stesso dell’esistenza.
D’altra parte è vero che è proprio il pensiero a rendere possibile la realtà, a crearla e a contraddirla. “Tu sei solo quello che riesco a pensarti”, scrive Minore nel Trittico paterno.
Il caro pensiero insomma può dirci solamente che l’unica perfezione è nel cedimento, che camminiamo tutti sull’orlo dell’abisso, come già suggeriva Sbarbaro sulla scorta dell’onnipresente Leopardi, e che forse sarebbe saggio cominciare a dirselo: “Siamo le carte / di un castello perfetto / ognuna è un crollo / il cedimento. // Una debolezza / si appoggia ad altre / il corto respiro entra / nel fiato universale”. Che, a ben pensarci, è una declinazione contemporanea e post-einsteiniana dell’invito alla “social catena” del recanatese.
In fin dei conti, se è l’abisso che alimenta il terrore, sono l’ipotesi del cedimento e la nostra debolezza di esseri viventi, e dunque di esseri morenti, che ci permettono di appoggiarci agli altri, alle altre carte, alle altrui fragilità e pertanto insieme tentare un equilibrio, trovare il gusto e la ragione stessa dell’essere creature sole nel mondo. Insomma proprio lì dove si annidano gli argomenti per i quali non varrebbe la pena di sforzarsi di vivere, nello stesso punto si trovano le motivazioni per cui vale la pena di continuare a farlo. Lo dice chiaramente Renato Minore nella poesia Il moto e il mondo: “siamo qui perché / per cosa per come / tra necessità e finzione / non vale la pena / ma vale la pena / tra finzione e necessità”.
Se la scommessa di ogni poesia è cercare di scoprire un senso che possa spiegare il nostro essere nella vita, è proprio il movimento del mondo e di ogni esistenza a rendere impossibile una fotografia attendibile di quello che abbiamo intorno e ancora di più di quanto è già accaduto. Il presente e il passato sono insensati, perché non hanno possibilità di essere fermati e dunque raccontati. “Lo specchio inclinato / dal balcone riflette / un attimo solo / il cane appare come / non sarà mai più”, scrive Minore in una poesia della sezione Mi serve tempo, confessando così che la poesia, anche quando ragiona e ragiona su se stessa, non può che specchiare il moto e perciò non può pretendere di fermare la vita in un immagine (o in un pensiero?) che possa davvero rappresentarla.
Ma forse nell’assenza, nel tratto di vita ignoto che non è possibile decifrare, si nasconde il senso di ogni storia, che ha sempre una parte di inesplorato, di non realizzato. C’è una zona in ogni storia che può anche essere illuminata, ma che riporta inevitabilmente a una mancanza e al buio. La poesia di Renato Minore è un po’ come l’occhio di vetro di Enrico, in una delle poesie che apre il volume, “che luccicava / sempre centrandoti / e sempre non vedendoti”.
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