Che cos’è la poesia inclusiva? Probabilmente nulla su cui valga la pena soffermarsi ora, visto che di poesia inclusiva poco si è detto in passato, niente attualmente. Ne parla però Eugenio Montale in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 21 giugno del 1964, poi inserito nel volume Sulla poesia, edito da Mondadori a cura di Giorgio Zampa nel ‘76. Dalle parole di Montale si ricava qualche idea rilevante, se non proprio essenziale, utile anche a sviluppare una riflessione sul linguaggio poetico dei nostri giorni.
Inclusiva è la poesia, a detta del premio Nobel (ma “non ne sono particolarmente informato” precisa con la consueta compiaciuta riluttanza, chiarendo che la richiesta di parlarne gli giunge da “un lettore”), che tende a introdurre contenuti fino a qualche tempo prima di pertinenza pressoché esclusiva della prosa, producendo inevitabilmente anche uno scivolamento di tipo formale in direzione della prosa stessa. “I moderni poeti ‘inclusivi’ ‒ scrive Montale ‒ non hanno fatto altro che trasportare nell’ambito del verso tutto il carrozzone dei contenuti che da qualche secolo n’erano stati esclusi”.
Il rischio è quello di “mettere in musica”, come si disse a proposito di Rossini, “anche i conti della lavandaia”, con la conseguenza di abbassare eccessivamente la qualità della musica insieme alla qualità del discorso poetico: “il verso ‒ scrive ‒ è sostituito dalla riga, che con i suoi molti ‘a capo’ mantiene l’illusione ottica del verso”.
Molti dei poeti inclusivi “si distinguono per la straordinaria privatezza (privacy) dei loro contenuti”, esprimendo situazioni e riflessioni di carattere “strettamente individuale” e, quello che più conta, escludendo “la trascendenza di quella che fu tradizionalmente la poesia e l’alta retorica”. Questi poeti “sembrano vivere in un perpetuo terrore che diremmo aziendale”.
A questo punto è necessario ricordare che Montale nello stesso 1964 aveva cominciato a scrivere le poesie che poi confluiranno nella sezione Xenia all’interno della raccolta Satura, che segna, come tutti sanno, un significativo mutamento di orizzonte nella produzione del poeta, caratterizzata da ora in poi da una semplificazione del registro lessicale, dall’introduzione di temi più immediatamente ordinari e quotidiani, da un tono e da argomentazioni più vicini alla prosa. Montale insomma, nell’articolo redatto per il Corriere, sta scrivendo anche di una condizione che vive molto da vicino. E infatti significativamente chiarisce che “tutti appartengono, apparteniamo, all’immensa azienda del progresso tecnico e meccanico, tutti sentono che il mondo è un serpente che sta mutando pelle e che ognuno di noi è il testimone e la vittima di questa oscurissima mutazione”.
Se il mondo cambia pelle, se anche ogni poeta è testimone e vittima della “oscurissima mutazione”, è chiaro che chi scrive non può solo darci notizie che riguardano se stesso, la sua giornata, i suoi dati, per così dire, anagrafici. La poesia, di fronte alla trasformazione del mondo, deve certamente mutare a sua volta, ma non può farlo rinunciando definitivamente alla sua più profonda natura, che è quella di dirci come è fatto il mondo (incarico valido ancora di più se il mondo sta mutando). E la poesia riesce a parlarci del mondo solo utilizzando il suo particolare linguaggio, che può anch’esso cambiare pelle e rinnovarsi, senza però rinunciare alla propria trascendenza. Questo sembra sostenere in fondo Montale.
Ma cos’è questa trascendenza, che a leggere le parole del poeta risulta caratteristica si direbbe intrinseca, connaturata e peculiare del linguaggio poetico? Si tratta in fondo di una sorta di spinta a esistere oltre, una superiore sensibilità, una capacità di penetrazione che consente non solo di guardare dentro le cose ma anche di guardare e di essere al di là di esse, di trascendere appunto. È una qualità che ogni poesia porta dentro di sé e che permette di parlare anche di se stessi e della propria vita, degli oggetti e delle situazioni quotidiane, facendo intravedere però altro che non sia segnatamente riconducibile alla propria esperienza e che non riguardi dunque solamente la propria esistenza. La trascendenza della poesia è la capacità delle parole di far diventare immateriali e nuovamente e diversamente conoscibili le cose di tutti i giorni. Perché accada, la poesia, sia essa in versi o in prosa, non può rinunciare completamente al suo statuto linguistico tradizionale.
Che cosa potrà diventare allora la poesia, si chiede Montale in conclusione dell’articolo? di cosa parlerà nei decenni successivi (che sono, a ben guardare, quelli che stiamo vivendo)? Montale riesce a rispondere che non può, come la musica e la pittura “circoscrivere il nulla e renderlo formalmente, fosse pure per un attimo, visibile” (azione che però lo stesso poeta ha spesso messo in opera), ma nemmeno essere “la descrizione dell’angoscia del signor X, abitante in via Y, numero di telefono Z, alle ore 16,45 del 18 luglio dell’anno 19…”.
La poesia appunto, aggiungiamo noi, deve raccontarci come è fatto il mondo, dirci chi siamo noi nel mondo (non solo il signor X in quel determinato 18 luglio). Invece sempre più spesso essa sembra abitata da tanti signori X che ci dicono della privatissima angoscia che tormenta le loro privatissime vite, ci sussurrano dei loro privatissimi amori e dei loro privatissimi dolori, ci mettono al corrente delle loro privatissime giornate, con molti a capo per mantenere “l’illusione ottica del verso”.
Foto in copertina di Giuseppe Grattacaso