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Mercuzio: fine pena mai (ovvero Armando Punzo e la poesia)

L’attività di Armando Punzo all’interno del carcere di Volterra è giustamente nota. Anche quest’anno il regista ha presentato nella casa di reclusione di Volterra con la sua Compagnia della Fortezza un’opera densa, carica di significati, capace di pressare lo spettatore trasportandolo su un tapis roulant che scarta continuamente e induce ad una riflessione sempre significativamente divagante, ma che converge infine verso un unico quadro di insieme che genera un’intensa reazione emotiva. C’è da chiedersi da dove nasca questa forza, che cosa accade tra le mura del carcere perché l’esperienza teatrale che lì nasce e si produce riesca a stupire e a coinvolgere così tanto lo spettatore. Credo che dipenda dalla capacità di Punzo di costruire uno spettacolo che sappia essere popolare nello stesso momento in cui si presenta come un evento elegante ed extravagante; un’opera che riesca ad evocare la tradizione, anche la più consueta, quella appunto che appartiene al sentire comune di più generazioni e non è confinata nell’ambito intellettuale, proprio quando sembra allontanarsi dai percorsi abituali e tentare strade poco battute, che sia capace di parlare al cuore mentre si propone come operazione di alto livello culturale. E’ il teatro, bellezza, e tu non puoi farci niente, direbbe il Bogart di Quarto potere. E’ il teatro, con la sua magia, la follia, la commozione, la suggestione e il turbamento, i suoi luoghi deputati, come lo è diventato, ormai da tempo, il cortile del carcere di Volterra.
Mercuzio non vuole morire accende i riflettori su quella che, a detta di Punzo, è la vera tragedia del Romeo e Giulietta, cioè la morte di Mercuzio, il poeta che parla di nulla perché parla dei sogni, e che dunque non può vivere in una società dove la violenza e la sopraffazione, la volgarità che esse producono, tolgono forza alle parole, almeno quando queste intendono veramente comunicare. Punzo insomma, in quel suo modo visionario istrionico trepidante eccitato e a tratti scanzonato, parla della poesia e dell’arte, della sua necessaria sopravvivenza in un mondo che sembra andare in tutt’altra direzione, affidando le parole di Shakespeare (non solo dal Romeo e Giulietta), di Baudelaire, Cervantes, Dante, Majakovskji, alla sua scrupolosa compagnia di attori detenuti e facendo entrare all’interno del carcere il mondo di fuori, i paesaggi cittadini su enormi pannelli, e le persone cosiddette libere, chiamate ad essere a loro volta protagoniste dell’evento, salvo poi, come è avvenuto appunto quest’anno, ribaltare la prospettiva e condurre attori e spettatori fuori dal carcere per fare in modo che siano i cittadini a diventare a loro volta attori, le strade e le piazze il grande scenario in cui si consuma la tragedia.
Infine la forza emotiva dello spettacolo è anche nel personaggio di Mercuzio, verso i cui ideali, sottilmente evocati, Punzo e i suoi attori sospingono gli spettatori. Lo scambio di ruoli, il continuo scivolamento di prospettiva, il bagaglio di sensazioni e di parole si consegnano al pubblico in un equilibrio imprevisto, tenuto insieme da un filo tenue e solidissimo, che lega e dà sostanza ai diversi frammenti, ai brani e ai lacerti di cui la messa in scena si ciba e si appropria, scomponendo e ricomponendo l’immagine complessiva che lo spettacolo poco a poco costruisce.
Il filo evanescente e tenace, che avvolge e mescola, che avvinghia e avvince, è proprio la poesia. Armando Punzo ci dice che è in fondo la poesia (l’arte, se volete) a dare consistenza alla realtà, a rimettere insieme le parti, a ricostruire e riunire. Senza la parola, senza la poesia, i nostri sogni sarebbero vuoti e non saprebbero dirci in quale direzione proseguire il cammino, perché senza sogni diventa inconsistente ogni possibilità di cambiamento, impossibile crescere, difficile avanzare.

E Mercuzio? Il poeta che non partecipa alla tragedia di Capuleti e Montecchi, tanto da cadere in duello appena la contesa ha inizio, non vuole morire, e lancia, attraverso Punzo e i suoi attori, il suo grido innocente e disperato. Ma Mercuzio è costretto a morire, a ripetere all’infinito la scena della sua morte, a cadere esanime, per potere poi rialzarsi con nuova e altrettanto disperata vitalità. La pena di Mercuzio è quella che lo costringe ad assumere su di sé la sofferenza e i disastri del mondo, la bellezza e la grandezza senza spiegazione, e pertanto intollerabile, dell’esistenza, la vita e la morte. Ed è una pena che non ha mai termine.

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