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Mariapia Veladiano: valutare significa dare tempo per rimediare all’errore

Mariapia Veladiano sul quotidiano La Repubblica di oggi interviene con grande chiarezza sulla questione della valutazione scolastica, strumento delicatissimo e in ogni caso fondamentale nel processo di formazione delle nuove generazioni. La base da cui si sviluppa il ragionamento è costituita dai risultati positivi ottenuti dalla scuola del Trentino, dove non si possono esprimere valutazioni al di sotto del 4. La Veladiano propone una serie di considerazioni pienamente condivisibili, a cui rimando. Mi soffermo su un solo aspetto, che è poi l’inevitabile punto di partenza di chi voglia affrontare la questione: a cosa dovrebbe servire l’atto della valutazione? a cosa veramente conduce?
Valutare, dice la scrittrice, è uno dei compiti della scuola: “serve a capire se il passo di chi insegna è giusto, se chi apprende lo sta facendo, a certificare al mondo che un percorso è compiuto davvero”. Aggiungerei che, oltre al “passo” dell’insegnante, ogni seria valutazione mette in discussione anche il metodo e il modello di relazione con coloro che vengono valutati.
Avviene invece che spesso le valutazioni prescindano dall’obiettivo primario che l’istituzione scolastica dovrebbe porsi, che non è quello di giudicare con durezza, di colpire dove si manifesta la mancanza, ma di spingere gli studenti a procedere con attenzione e possibilmente con entusiasmo in un percorso che li trasporti nella vita adulta con un adeguato bagaglio di conoscenze e di competenze. I ragazzi crescono, hanno bisogno di imparare, non di essere mortificati, di capire che gli errori possono servire a migliorarsi, di avere a disposizione strumenti che permettano loro di verificare se quello che stanno facendo ed apprendendo è in sintonia con la visione del mondo che stanno costruendo. Hanno perciò necessità di inserire le valutazioni in un sistema giusto e condiviso. “A scuola – scrive la Veladiano – la valutazione incrocia tutto intero il tempo in cui i ragazzi esplorano ancora intatte tutte le loro possibilità, cercano conferme del loro valore, hanno paura di non trovarle. E’ la formazione del sé. In cui ci vuole tempo, spazio per l’errore, e per rimediare all’errore”.
E più avanti: “la scuola deve sempre sapere che la vita sorprende, che tutto può accadere nel bene e nel male”.
Mi viene in mente a questo proposito un passo del romanzo Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia. 

“… all’epoca Puglisi era di una timidezza sconcertante; uno di quei ragazzi che faticano moltissimo a ingranare e ne fanno una tragedia incomunicabile. Faticano a ingranare nella vita (il primo vero bacio lo danno di solito a vent’anni) e per motivi che nessuno può comprendere faticano a ingranare negli studi. E’ come se la loro intelligenza si chiudesse, la loro sensibilità fosse spartita con precisione millimetrica tra cariche positive e negative, per cui l’impasse diventa la loro croce naturale, e rischiano – come Puglisi faceva ogni volta che veniva interrogato, e a ogni interrogazione faceva scena muta – di pisciarsi addosso quando anche la madre di tutte le domande cattive (“Sai almeno come ti chiami?”) inizia ad essere inghiottita dal silenzio, domanda che uno dei tanti professori a un certo punto si lascia sfuggire, non per malvagità ma perché l’impotenza di certi ragazzi è così solida da diventare un sostegno perfetto per la fragile impotenza degli adulti”.

Siamo a Bari a metà degli anni Ottanta. Puglisi, assicura il romanzo, si farà poi strada nella vita. Quanti Puglisi ci sono ancora oggi nelle scuole d’Italia, quanti insegnanti si sforzano di concepire considerazioni spietate, sicuri che su questo terreno si giochi la loro rispettabilità e quella dell’istruzione che dovrebbero assicurare?
Anche oggi il rigore di certe valutazioni, la presunta oggettività, nascondono solo la “fragile impotenza” di chi è chiamato a valutare.

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