La raccolta di Vivian Lamarque Madre d’inverno, recentemente pubblicata nella collana Lo Specchio di Mondadori, è un libro compatto e di solida struttura, nel quale la poetessa affronta, ancor più che in precedenti prove, l’argomento che ritorna ossessivamente nella sua opera, presente a partire dai primi libri ed ora qui riproposto con nuova forza. La Lamarque, con la maniera tutta sua con la quale riesce a coniugare fragilità e determinazione, sottile meraviglia e dolente rassegnazione, ci pone di fronte al nucleo nodale della sua biografia, il rapporto con la madre adottiva e con quella biologica, meglio la presenza di queste due figure non tanto e non solo nella vita di tutti i giorni, ma nell’intimità più profonda della scrittrice, ombre i cui movimenti, anche i più impercettibili, anche quelli vissuti in assenza, determinano conseguenze vistose. C’è da dire comunque che Vivian Lamarque proprio quando sembra parlare solo di se stessa, mentre si esprime sulla propria particolare e delicata esperienza, sta anche parlando del mondo, dell’universo tutto e dei suoi oscuri meccanismi, sta parlando di noi e del nostro rapporto con tutto quanto ci scorre attorno. E’ facile richiamare a questo proposito la lezione di Saba e del suo autobiografismo radicale, del resto già manifesta in precedenti raccolte anche per la relazione con la psicoanalisi (freudiana nel caso del triestino, junghiana per la Lamarque), e qui in qualche modo evocata già nel titolo che fa pensare al dualismo sabiano tra la “madre di pianto” e la “madre di gioia”, quest’ultima la balia Beppa Sabaz.
E’ stato detto più volte che tra le qualità più significative della poesia della Lamarque ci siano il tono leggero e il dettato limpido, dietro cui si nascondono contenuti ed emozioni complessi, spesso dolorosi. Già a proposito delle prime poesie, Raboni parlò di “eleganza impalpabile e tuttavia quasi feroce”. Sarebbe utile aggiungere a questo punto che, in particolare in questo libro, la straordinaria capacità di Vivian Lamarque di trasformare, con repentini scatti tonali e di soggetto, il tema ossessivo e la vicenda più propriamente biografica in riflessioni più generali sull’esistenza dell’uomo nel mondo, si concentra in particolare sul nostro rapporto con il tempo, sulla relazione con gli oggetti e le presenze naturali (gli alberi, i fiori, i piccoli animali domestici) che interagiscono con il nostro quotidiano.
A ben guardare Madre d’inverno è soprattutto una lunga, a tratti penosa, sempre sorprendente riflessione sul tema del tempo, il nostro tempo individuale, che rende molteplice la singola vicenda esistenziale, il tempo che rimane, quando le persone care non ci sono più, o quello ancora che ci accompagna lentamente ai margini della vita. In “Venti volte circa già Natale”, la poetessa si chiede quanto tempo resti ancora da vivere: “Di vita venti circa anni ancora, così tanti?”. Ma il così tanto a declinarlo diversamente, a ridurlo in porzioni, sembra diventare decisamente più piccolo: “Specifichiamo allora: inverni venti circa / venti circa primavere, così poche? circa / sole venti volte è già natale, venti andare / al mare? è così poco venti due decine sole / e mentre dici venti il vento ruba siamo a / diciannove”.
Soffermarsi sul valore del tempo è anche un modo per cercare di delimitare la morte, per comprenderla. Il libro si costruisce a partire dalla scomparsa della madre e procede, sempre con tono leggero e sofferente, nel tentativo di dare un posto alla morte e ai morti (tra questi è da annoverare anche la “Madre l’altra”, come suona il titolo della quarta sezione del libro, e cioè la madre naturale), di inserirli ancora nelle vicende della vita. “Agli appuntamenti arrivavi / sempre molto prima, facevi / sembrare in ritardo il mondo / intero, lui si sentiva in colpa, / ti si scusava. Ora nella tua via / mi pare camminino tutti / un po’ più piano e hanno anche / tolto l’orologio stradale, quello / sotto l’albero, si sono accorti / che ormai non lo guardava più / nessuno, tantomeno l’albero, / loro l’ora la conoscono già / per nascita, esatta senza guardare”.
Gli oggetti si diceva, gli alberi, i fiori, sono presenze ricorrenti nelle liriche del libro. Partecipano alle vite, diventano interlocutori attendibili, sembrano essere depositari di una verità che però non possono compiutamente comunicare. Restano, quando gli esseri viventi non ci sono più e, a loro modo essi stessi viventi, possono ricordare, imporre un dialogo tra chi è in vita e coloro che sono scomparsi: “Quando si telefona, dopo, nelle loro case / si fa suonare a lungo più a lungo e di quegli squilli / supplementari ti sono grati gli annoiati mobili / e soprammobili e l’asse da stirare / e più di tutto la disabitata poltrona, tutto / nella casa tende le orecchie, tutti, anche chi / ha formato il numero, e proprio mentre sta per / riagganciare si ferma, alt, è parso di sentire di là / quel lieve fruscio che sempre precede / l’atto del rispondere”.
Una sintesi della poesia della Lamarque (che, sia detto con chiarezza, raggiunge particolarmente in questo libro, esiti alti) la fornisce la stessa autrice in una lirica, Caro dottore, rivolta allo psicanalista junghiano anch’egli già protagonista di molte liriche e della raccolta Poesie dando del Lei: “fare anima cos’è? le chiedevo allora, ora / lo so cos’è, è tante cose, anche camminare / tra oriente e occidente, un po’ facendo uso / di gioia e un po’ di dolore, un po’ di gambe / e un po’ di pensiero, un poco guardando alla terra / e un poco al cielo”.
Fare poesia per Vivian Lamarque cos’è? E’ andare con passo delicato tra luoghi lontani tra loro e scoprire che le distanze possono restringersi o dilatarsi, è fare uso della parola in grado di spiegare che la vita è dialogo tra gioia e dolore, è insieme concretezza e immaterialità. E’ uno sguardo rivolto, nello stesso tempo, alla terra e al cielo.
Pubblicato sulla rivista online Succedeoggi.