La narrativa di Maria Attanasio ama cercare negli eventi passati, più o meno lontani nel tempo, ma comunque ancora in qualche misura vicini al nostro sentire, le ragioni e i moventi, piccoli o grandi che siano, che ci hanno condotti fino alle azioni che caratterizzano la nostra epoca. La scrittrice siciliana (e in questo caso l’attribuzione regionale non suoni limitativa, ma è qualità culturale fortemente identitaria, che aggiunge materia e sostanza all’ispirazione) riesce a guardare ai fatti trascorsi con sguardo lucido e appassionato, esperto nel concentrarsi sui particolari, mettendoli a fuoco con nitida precisione, senza però perdere di vista il paesaggio di insieme, il più ampio panorama sociale e politico che quegli eventi ha generato. I fatti umani insomma, che possono essere inconsueti e privati, e che hanno forza pur nella loro parziale unicità, si spiegano anche alla luce di un contesto più vasto che Maria Attanasio riesce a ricostruire con puntualità, ma evitando che esso possa appesantire o rendere meno interessante per il lettore lo sviluppo narrativo della vicenda.
Questo modo di procedere appare chiaro in romanzi quali Il falsario di Caltagirone e nel fortunato La ragazza di Marsiglia, entrambi pubblicati per Sellerio, rispettivamente nel 2007 e nel 2018, e si ripresenta con grande forza nei racconti di Lo splendore del niente e altre storie, edito di recente dalla stessa casa editrice. Il legame con l’editore palermitano è d’altra parte ribadito anche dalla dedica del volume ad Elvira, che è appunto la Sellerio, “sempreviva signora delle storie”, che ebbe il merito di avvicinare la Attanasio alla narrativa, dopo che la scrittrice si era fatta conoscere ed apprezzare come poeta, a partire dalla fine degli anni Settanta.
I racconti che compongono Lo splendore del niente, che sono stati scritti in momenti diversi e che in questo volume vengono opportunamente assemblati, narrano vicende di personaggi di cui si è persa la memoria, ma dei quali si parlò negli anni in cui vissero, per la singolarità della loro esperienza. Si tratta in particolare di donne dalla forte tempra e dal destino segnato dalla condizione di subalternità che non seppero accettare, e che dunque determinò uno stravolgimento nelle loro esistenze. È il caso per esempio di Francisca, la protagonista del bel racconto Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, che ama il suo lavoro di contadina che riesce a svolgere al pari degli uomini, tanto che lo stesso marito le ha dato l’appellativo di “cumparuzzu”, pur apprezzandone la bellezza e la “natura di femmina”. Quando il marito muore, Francisca per poter continuare nel lavoro nei campi, si veste e si comporta da uomo e ripete a se stessa di voler essere “masculu fora e fimmina intra”. Questa sua scelta e l’ambiguità che ne deriva la condurranno dinanzi all’Inquisitore. Il fatto memorabile a cui si fa riferimento è probabilmente anche l’inaspettato epilogo della vicenda.
Va detto che in questo come in altri racconti a fare da insostituibile scenario alla narrazione e ad offrire forza alla stessa prosa della Attanasio è il paesaggio della natia Caltagirone, che qui diventa Calacte, “città di vasai fin dalla preistoria, prima che Calacte fosse Calacte”, ma anche “di aggrovigliate migrazioni”. La Sicilia che in queste storie fa da coprotagonista non è quella però solare e splendente a cui certa agiografia turistica ci ha abituati, ma quella meno policroma e a tratti dura delle zone interne. Sottolinea la scrittrice che “il sole, il mare, gli aranceti sono reali solo lungo la costa”, invece “l’interno è arido e riarso d’estate, umido e nebbioso d’inverno, in una monocromia quasi totale e senza sfumature, che svaria, però, a ogni stagione: dal fragile verde di febbraio, al giallo acceso di prima estate, all’ascetico bruno di settembre”.
In questo paesaggio che non consola ma mette l’uomo di fronte a se stesso, alle proprie paure e all’aridità della propria condizione, nel secolo che dovrebbe essere dei Lumi ma che ancora le avvolge nel buio del pregiudizio, si muovono Francisca e le altre donne: Catarina che per il suo marito mastro carpentero si lancia nelle fiamme, la donna pittora Annarcangela che “quando sentiva troppo pesante e sconsolato il mondo, chiudeva gli occhi e, per consolarsi, evocava distese di giallo, di verde e il blu oltremare di un allucinato cielo notturno”, o la nobile Ignazia, che avrebbe voluto cantare in un’epoca nella quale a cantare erano solo i maschi, e che scelse comunque la libertà, ma “non poté però che viverla all’interno, opponendo al falso pieno di una vita agiata, la solitaria e mistica avventura dell’anima”. Sono donne, e con esse pochi uomini, alla ricerca di una qualche certezza identitaria, che però sfugge o le mette di fronte alla propria rovina, in quanto la possibile risoluzione comporta una deviazione dalle regole sociali imposte.
Maria Attanasio segue i suoi personaggi con partecipata emozione e con uno scrupolo che nasce dall’accertata ricostruzione storica, attraverso una prosa ricca ed elegante, capace di introiettare e di riutilizzare in maniera originale la sintassi regionale siciliana, così come la verbosa declamazione dei documenti dell’epoca. È una prosa che si inserisce pienamente nella tradizione della narrativa meridionale, e in special modo siciliana da Sciascia a Consolo, ma nella quale si avvertono gli echi del realismo visionario di Anna Maria Ortese e di Fausta Cialente, e ancora di più di Domenico Rea.
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