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Le cose quali devono apparire: Gozzano a Jaipur, la “città della favola”

Jaipur è il capoluogo dello stato indiano del Rajasthan. Guido Gozzano racconta di quella che chiama “città della favola” (scrivendo Giaipur) nel resoconto del suo viaggio in India, pubblicato prima in forma di articoli su quotidiani e riviste e poi, postumo, in volume, con il titolo Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India.

Dopo aver visitato “tante città marmoree abbacinanti di candore”, Gozzano è stupito che la città abbia la “dolcezza di certe stoffe attenuate dal tempo”. Dalla veranda dell’albergo osserva sbigottito: “tutto è color rosa a delicati fiorami bianchi: rosa le case, gli archi, le cupole, i minareti delle moschee, le guglie delle pagode”.

Per arrivare a Jaipur, i viaggiatori hanno attraversato il territorio dell’India più desolato, “un’infinita pianura di scorie avvolta da un’atmosfera non più terrestre”. Sarebbe un luogo da eterna carestia, se gli inglesi non avessero costruito una fitta rete ferroviaria, che fa tappa anche a Jaipur, permettendo l’arrivo del grano, che viene dispensato quotidianamente alla popolazione. “E quando ognuno ha ricevuto la sua misura di frumento o di farina candida scrive Gozzano ‒ attende all’occupazione prediletta: sognare”.

E del resto Jaipur è “una città di sogno”, abitata da “un popolo adorabile, che ha la poesia del superfluo e la scienza delle cose inutili”. Come potrebbe una città con queste caratteristiche non risultare affascinante per un uomo spesso perso dietro le sue fantasticherie, portato più a vagheggiare e meditare che ad agire concretamente? “Certo mi ricorderò di Giaipur ‒ confessa il poeta ‒ se un giorno dovrò scegliere una patria alla mia pigrizia contemplativa”.

La città della favola sembra essere, come succede nelle favole, un set troppo carico, la somma posticcia di quello che in India ci aspetteremmo di trovare: “in nessuna città indiana, nemmeno ad Haiderabad, nemmeno a Delhi ho ritrovato così intatto l’Oriente di maniera”. Ci sono elefanti gauldrappati da nolo e per le cerimonie nuziali, “dipinti di tutti i colori più vivi come giocattoli di Norimberga”, e cammelli e dromedari che passano di corsa per le strade, e cavalli, “destrieri classici, dal tipo arabo, la criniera e la coda ondulata e prolissa”. A montarli “cavalieri fantastici che si direbbero eroi cinematografici o comparse d’operetta”. Ma sono veri cavalieri, “nonostante la scimitarra gemmata e lo scudo all’arcione, il casco-turbante adorno di penne svolazzanti, la barba imbiondita al hennè”.

Gozzano in India

È evidente come Gozzano sia particolarmente affascinato proprio da questo continuo svelarsi di elementi all’apparenza fantastici, artificiosi o finti, almeno agli occhi di un occidentale, e che invece più di altri appartengono alla realtà. Quella città di pizzi rosa è “una città di sogno”, ma è fatta di case, guglie e moschee vere; gli elefanti bardati sembrano essere di un circo, ma svolgono invece la loro funzione per il trasporto e le cerimonie; cavalli e cavalieri che “si direbbero eroi cinematografici” sono invece parte significativa della realtà del luogo.

Poche pagine prima, Gozzano racconta che, nella città di Agra, ha assistito a un’esibizione di giocolieri e fachiri (“sono una delusione per chi viene in India mendicando un po’ d’inverosimile, di soprannaturale”). Al termine dello spettacolo, il cui culmine è stato la lotta cruenta tra un cobra e una mangusta, due giocolieri altercano, s’ingiuriano con ira crescente. Tutto lascia pensare a “un litigio autentico”. Uno dei due finisce chiuso in un sacco con l’avversario che “non pago prende un randello a clava e percuote l’involto fino ad appiattirlo, fino a farlo aderire vuoto e floscio sul terreno”. Comincia così, da parte del vincitore, “il monologo del dolore, del rimorso disperato”. Ma poi la folla si fende “e si vede ritornare lo scomparso, sano e salvo, non si sa come, non si sa da dove”.

Che caratteristiche deve avere la realtà per essere veramente tale? dove termina l’apparenza e dove comincia il sogno? Gozzano che era approdato in India con la speranza di trovarvi, come lui dice, “un po’ di inverosimile, un po’ di miracolo…” è particolarmente attratto da quel territorio di confine dove cose, viventi e avvenimenti si manifestano nella loro apparenza e nascondono la loro realtà, o forse, al contrario, si mostrano nella loro realtà fingendo di non essere quello che sono. E la poesia in tutto questo che ruolo gioca, dove si nasconde?

Torniamo ai cavalieri di Jaipur, alle loro penne svolazzanti, alle “ciglia annerite con l’inchiostro di kool”. Qual è il fine, a chi è diretto, si chiede Gozzano, “questo abbigliamento scenico da principi di Mille e una notte?”. La risposta dice tanto, molto di più di quello che sembra dire: “Forse non tanto per piacere alle loro donne mansuete, quanto per servire degnamente la Dea Illusione, la Dea Poesia, la Maja-Devi della teogonia indiana, quella che pone tra noi e le cose quali sono il velo delle cose quali devono apparire”.

La Dea poesia, dice il poeta, pone un velo tra noi e le cose e ce le fa vedere non come sono, ma “quali devono apparire”. Forse il compito dei versi, potremmo presumere, che sono fatti da uomini e non da divinità, è quello di muoversi in questo luogo velato che è il mondo, senza rimuovere il velo, ma anche cercando di vedere e di far vedere oltre. Le cose devono apparire nel modo in cui le vediamo, ma sono anche altro, hanno una loro verità e una loro natura che, in parte, negano e sconvolgono il loro stato apparente.

È quanto, in quegli anni (il viaggio di Gozzano risale al 1912) e ancora oggi, va dicendo la fisica.

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