Lacci
regia di Daniele luchetti
Uno degli enigmi che ci arrovella e può determinare la nostra infelicità è rappresentato dal confine, che non è nemmeno tanto sottile, ma che troppe volte non riusciamo ad inquadrare, tra l’amore e il suo scivolamento verso una routine che genera mancanza di fiato, dalla linea certo non priva di curve ma sicuramente visibile, oltre la quale il sentimento affettivo finisce e comincia un senso di vuoto e di frustrazione, il posto dove termina il piacere e ha inizio la prigione. Eppure l’arcano dovrebbe avere scioglimento facile, perché, è vero, l’amore è solitamente ingarbugliato, ma sulla sua esistenza non dovrebbero esserci tanti dubbi. L’amore in fondo, in quanto tale, è semplicissimo: o c’è o non c’è. Ma è proprio sulla sua reale presenza, o se volete sulla sua perentoria insussistenza, che spesso non riusciamo a trovare un accordo, né con noi stessi né tantomeno con il partner. Si vive così anche a lungo in quel territorio infido e nebbioso, che è fatto di abitudine, di paura, di sbandamenti dolorosi, di repentine marce a ritroso, di riflessioni patetiche e dibattiti inconcludenti.
Il film Lacci, diretto da Daniele Luchetti, presentato a Venezia in apertura dell’ultima Mostra del cinema, tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone, che ne firma anche la sceneggiatura insieme allo stesso regista e a Francesco Piccolo, si preoccupa di scandagliare questo terreno di confine, terra di nessuno e insieme luogo di residenza di molti, fatto di verità che è meglio tacere e di domande che hanno la fisionomia di testardi atti persecutori.
La verità in fondo non esiste, nemmeno quando si parla di sentimenti, che dovrebbero avere la brillantezza del bianco o non esserci proprio, e che invece troppo spesso sfumano nel grigio. Malgrado questo presupposto o proprio a partire da questo ragionamento, Lacci è un film a tesi, solo che a concorrere alla formazione dell’assunto portante sono gli argomenti, fino ad un certo punto inconsapevoli o comunque non dichiarati, sicuramente divergenti e dissonanti, dei protagonisti della vicenda.
Aldo (Luigi Lo Cascio) e Vanda (Alba Rohrwacher) sono una giovane coppia di sposi con due figli. Li conosciamo all’inizio degli anni Ottanta, nella loro cucina di una casa piccolo borghese, che può permettersi ancora, i tempi sono quelli, mobili anonimi e i peperoncini messi a seccare alla parete. In effetti lo spettatore presto capirà che ci troviamo in un’altra epoca, che la vicenda la stiamo inquadrando da un periodo successivo. Sono passati più o meno quattro decenni e Aldo e Vanda (intanto diventati Silvio Orlando e Laura Morante) sono una coppia avanti negli anni, ma ancora piena di vita. Sta di fatto che la loro esistenza nasconde, sotto l’apparente tranquillo anonimato di cauta insoddisfazione, un passato, quello appunto raccontato con continui e significativi andirivieni tra gli anni Ottanta e i nostri giorni, fatto dell’insofferenza di Aldo al protocollo della vita di coppia, a cui invece Vanda crede fermamente, o a cui deve per forza credere, deve fingere di credere, vinta com’è da una rabbia profonda e inesauribile, che è forse solo la testarda volontà di mantenere in vita la relazione di coppia, di tenere fede a quello che lei chiama patto (“Noi abbiamo fatto un patto quando abbiamo deciso di andare a vivere insieme. Te lo ricordi o no?”). Aldo, che lavora in radio e ha goduto di una certa notorietà, in quel tempo passato ha abbandonato moglie e casa ed è andato a vivere a Roma, innamorato della bella e vitale Lidia (dovrei definirla, come farebbero in tanti con perversione lessicale contemporanea, “solare”, ma me lo risparmio), con la quale è felice e riesce a vivere, in armonia e concordia, anche la quotidianità. Ma Aldo e Vanda hanno due figli, Anna e Sandro, che all’inizio della vicenda raccontata sono solo due bambini. Un giorno il più piccolo ricorderà al padre che si allaccia le scarpe in maniera inusuale, perché così gli ha insegnato lui. Naturalmente i lacci sono sì quelli delle scarpe, ma anche, con metafora immediatamente leggibile, quelli che legano Aldo alla sua vita precedente, al matrimonio naufragato, che a un certo punto, complici i lacci, si ricompone.
Dovrebbe essere tutto risolto, cancellati i rancori e i sensi di colpa, la troppa felicità e il troppo dolore. Invece nessuno è felice in questa storia di ritorno all’ordine coniugale, perché del resto un ordine a cui credere e dedicarsi non c’è mai stato. Nemmeno i figli possono dirsi soddisfatti, anzi forse i figli meno anche dei genitori, se è vero, come afferma Anna nel pieno di una amara confessione (una accorata Giovanna Mezzogiorno, Sandro adulto è Adriano Giannini), che ha sempre desiderato di assomigliare non a sua madre ma a Lidia, che pure aveva visto così poche volte.
“Nessuno voleva fare del male a nessuno” dice Aldo / Lo Cascio, e invece in questa storia stanno male tutti, tutti fanno male a tutti, forse perché (può essere questa in fondo la tesi nella quale convergono gli argomenti dei vari personaggi) nessuno vuole essere fino in fondo se stesso e prendere, con il proprio volto e il proprio corpo, quella parte di felicità e di infelicità che gli spetta.
I personaggi di Lacci, così come ce li delinea Luchetti, sono tutti fragili e tutti, pur con le loro insopportabili mancanze, degni di assoluzione. Sono tutti in fondo infelici e perciò tutti umani. Vorrebbero che la loro umanità fosse calore e invece a quel calore finiscono giorno dopo giorno per rinunciare. E questa rinuncia, da tutti in qualche modo perseguita, li rende insostenibili. Proprio come tutti noi, in fondo, siamo tante volte insostenibili a noi stessi.
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