Dice un poeta arabo: la felicità non è una meta da raggiungere, ma una casa in cui tornare. Sembrerebbe racchiuso nella frase che pronuncia commossa Elena, la figlia dell’anziano avvocato intorno al quale ruota la vicenda narrata, il senso ultimo del film La tenerezza, che Gianni Amelio ricava dal romanzo La tentazione di essere felici dello scrittore napoletano (nato nel 1974) Lorenzo Marone. Una storia insomma, che si muove sul terreno degli affetti familiari, uno spazio certo insidioso ma in qualche misura in fondo protettivo. Ma, come spesso accade nei film del regista calabrese, la vicenda contiene un non detto che si lascia solo intravedere e che costituisce il contenuto più vero dell’opera.
Amelio, in una sua maniera terribile e straziante, estremamente intensa, ricorrendo spesso a primi piani e dialoghi densi di contenuti, disegna un paesaggio intimo dei personaggi, e particolarmente dell’avvocato Lorenzo, magistralmente interpretato da Renato Carpentieri, perennemente in bilico tra la volontà di sentire la presenza degli altri, in qualche modo di affidarsi a loro, e l’urgenza di negarli, di abitare fino in fondo, senza sconti la propria solitudine. Certo la storia parla di affetti familiari e della violenza pronta ad esplodere all’interno di un mondo che sembrerebbe non prevederla, dell’incapacità di manifestare se stessi particolarmente proprio di fronte a chi ci è più vicino, dell’egoismo che spesso ci tiene lontani dalle esigenze e dalle sofferenze altrui, ma anche, con uno sguardo che sembra diretto e che invece sottilmente scarta e si stende obliquo e impietoso sugli avvenimenti, dice soprattutto di quella zona di confine dove più o meno tutti abitiamo, continuamente segnata dai sentimenti più puri e dal loro contrario, dal bisogno di donare e da quello di depredare. Siamo, ci fa confessare Amelio, insensatamente ma molto umanamente sempre capaci di pietà e di ferocia.
E’ proprio intorno a questo difficile equilibrio che deve essere cercata la sostanza più vera del discorso che il regista calabrese propone: siamo troppi sentimenti insieme e la casa che cerchiamo è difficile da riconoscere. Così spesso la tenerezza si nasconde dietro affetti lacerati, in piccoli gesti, in parole appena sussurrate, in incontri del tutto casuali e improvvisamente indispensabili.
La casa in cui tornare, ed è la problematica che appunto si presenta nel film, è un punto di approdo difficile da raggiungere, perché continuamente si sposta, corre davanti a chi la insegue, si sbriciola, si maschera, risorge in un posto lontano, in cui fino a un momento prima sembrava regnare il deserto.
Renato Carpentieri è Lorenzo, un avvocato in pensione, che pare non si sia fatto mai troppi scrupoli pur di portare in fondo vittoriosamente le sue cause. Ha un rapporto pessimo con i suoi due figli (lei è Vittoria Mezzogiorno, lui Arturo Muselli). Al suo ritorno a casa, dopo una degenza in ospedale in seguito a un infarto, scopre di avere dei nuovi vicini. Con essi, e particolarmente con Michela (una sicura Micaela Ramazzotti) intrattiene rapporti sempre più profondi, quasi a sostituire quelli estremamente conflittuali in ambito familiare. Sua moglie è morta da qualche anno, ma l’avvocato confessa che non l’amava. Anche quella che era stata la sua amante (Maria Nazionale) è ormai distante dalla sua vita. L’avvocato Lorenzo è, almeno all’apparenza, egoista e cinico, scortese ai limiti della sgradevolezza, ma nasconde dietro l’evidenza scontrosa, come certi personaggi del cinema di Clint Eastwood, dei valori veri e profondi che lo tormentano. L’incontro con Fabio (un intenso Elio Germano), Michela e con i loro due figli produrrà un corto circuito che porterà in luce gli aspetti più delicati e compassionevoli del suo carattere.
La tenerezza è un film come se ne fanno pochi oggi, particolarmente nel nostro paese: non ammicca, non vuole rappresentare la realtà smussandone le asperità, non vuole farci ridere a tutti i costi. Invece ci mette di fronte alla miseria dei quotidiani piccoli e feroci squilibri affettivi, facendoci da essi aggredire e lasciandoci frastornati, così come sono spesso disorientati e confusi i personaggi mentre attraversano le vie del centro di Napoli, trafficate e caotiche. Il regista evita di cadere nel patetico e nel melodrammatico, non avendo paura del rischio che corre e comunque facendo arrivare lo spettatore sempre un attimo dopo, quando gli avvenimenti si sono già consumati.
Pubblicato sul web magazine Succedeoggi