di Alessandro Quattrone
Si finisce di leggere il nuovo libro di Giuseppe Grattacaso (La vita dei bicchieri e delle stelle, Campanotto editore, 2013, pp.112, euro 11) con la rara soddisfazione che si prova di fronte a un’opera artistica accurata e compiuta, e con la voglia di raccomandarne la lettura a quelli che amano un genere di poesia fondato sulla forza del pensiero (anche di quello dubitante), ma espresso con la fluidità della musica, una poesia che rimane sempre tale, anche quando fa escursioni in territori di confine come la scienza o la filosofia, oppure si sofferma a frequentare ambienti domestici che non sembrerebbero poter offrire spunti di ispirazione.
Grattacaso non si distrae mai: con la pazienza e la perizia dell’artigiano modella il suo “oggetto”, lo leviga, lo sottopone a una giusta irradiazione di calore, lo fa raffreddare e infine si dedica a decorarlo con immagini chiare e precise. Inoltre sa bene che, se i versi aspirano alla musica, bisogna evitare le sempre possibili cadute di tensione, e comporre una nitida melodia (il corso di un pensiero) accompagnandola con un’armonia (il contesto) che ne aumenti l’evidenza. Nel frattempo, senza dimenticare di battere il ritmo, cerca le parole esatte; ma senza affanno, o meglio con la sprezzatura di chi – dopo un lungo esercizio – riesce ad apparire naturale e disinvolto anche quando compie movimenti difficili. Risultato: una sequenza quasi ininterrotta di endecasillabi cui non è estraneo il gusto delle rime (sia pure – a parte qualche eccezione – non ordinate in uno schema) e una grande varietà di scelte oggettuali e verbali.
L’attenzione costante alla forma, per altro, appare come una necessità interiore, non un artificio, un modo per mettere ordine dove è possibile, e per costruire un edificio stabile nel quale trovare accoglienza e riparo dalle insidie cui si è soggetti, anche quando le conoscenze “certe” sembrerebbero poter illuminare e proteggere.
Il libro è diviso in cinque sezioni, di diversa natura e impostazione, ma presenta una voce coerente, un timbro e un tono sempre riconoscibili, e sempre la stessa mente ragionante e interrogante a proiettare le sue luci e le sue ombre nelle situazioni più svariate. Dall’inizio alla fine del libro ci troviamo di fronte a una poesia insieme cosciente e meravigliata, che riesce a entrare in rapporto con tutto l’universo, dalle galassie alla tartaruga, dagli abissi al moscone.
Nella prima sezione (Bava di vento) il profondo mistero del cosmo e della vita è portato in superficie e trattato per quel che è, senza presunzione né sgomento, anzi con la grazia – a volte persino la leggiadria – di chi si interroga umilmente, sentendo che il proprio smarrimento è simile a quello della materia, del pianeta, mentre tutto vaga nell’infinito («Tanta bellezza e tanta disperata/ materia si confonde e si consuma,/smarrita si protende su voragini,/precipizi di nebbia in cui vagare»). È una poesia informata, che ha l’andamento del “pensiero poetante”, con una certa tendenza alla memorabilità dei versi finali, e senza cedimenti a un arido filosofeggiare, che pure potrebbe costituire una tentazione. («Rimango speculando sul pianeta,/che orbita tediato ed esitante,/da tempo più distante da qualcosa/che non sappiamo, insomma barcollante,/disorientato dentro l’universo/che si allontana e che diventa grande,/che giorno dopo giorno un poco espande/ in soffi e leggerissime carezze,/miti bisbigli che aggiungono frammenti/ di luce al buio, notte a antica notte»).
Nella sezione intitolata La vita dei bicchieri e delle stelle l’ingegnosa e spesso arguta attribuzione di un’anima agli oggetti domestici va al di là della pura personificazione retorica, e al di là persino del processo poetico, sconfinando nella dimensione teatrale, con la trasformazione di bicchieri, posate ecc. in personaggi di una commedia che vivono della vita infusa loro dall’autore, il quale, così facendo, si concede l’opportunità di abitare provvisoriamente un regno in cui l’insignificante diventa significativo e l’ordinario straordinario, in un gioco brillante che, come sanno bene i bambini, autorizza ad essere molto seri nell’interazione con gli altri (in questo caso gli oggetti stessi). Una salutare pausa di straniamento e riflessione: «Le sedie, per esempio, quelle sedie/delle quali più non ci accorgiamo/ (…) /come eleganti si pongono al servizio/dell’ospite imprevisto, come sono/cedevoli e gentili (…)».
Dopo L’atomo la polvere le spore, sezione contenente una serie di distici che con garbo e fantasia offrono alcune “minime congetture sull’origine” dell’universo, si passa a L’anima. L’io vorrebbe starsene in santa pace con il corpo, e così rimprovera all’anima, con un piglio insolito in un testo poetico, di essere fastidiosa e ingombrante («Non vedi che la testa mi fa male, / anima prepotente…»). Verrebbe da pensare a certe anziane coppie di coniugi, i quali, dopo tanti anni trascorsi insieme, vedono ormai nel partner un limite noioso più che un’affettuosa e affidabile compagnia; tuttavia, chissà se arriveranno mai a separarsi in modo definitivo… Potrebbe anche trattarsi soltanto di un impaziente desiderio di vacanza, di avventura, di libertà metafisica da sperimentare – paradossalmente – soltanto attraverso il corpo.
Le quartine epigrammatiche (Quartine d’agosto) che concludono il volume non sono mai forzate (nemmeno dal potente richiamo della rima, che a volte – come si sa – può essere un canto di sirena), mai banali, pur essendo incentrate su momenti ordinari. Un buon metodo per divincolarsi da lacci e lacciuoli con cui la realtà esterna – e a volte anche la nostra insufficienza – ci impedisce di sperimentare uno stato di pienezza, di perfezione. Qui la ricerca del dettaglio significativo si congiunge al guizzo della fantasia, mantenendo sempre il senso della misura.
In definitiva La vita dei bicchieri e delle stelle ci presenta una poesia in cui, malgrado qualche momento di tensione, carne e spirito riescono a convivere, una poesia che propone spesso scenari e riflessioni in cui il lettore può ritrovarsi facilmente, sia che abbia sete dell’altezza, sia che preferisca rivolgere lo sguardo tutto intorno, o addirittura a terra, attento a dove mette i piedi. Grattacaso non assume mai un atteggiamento didascalico, tuttavia dalla lettura del libro si può ricavare un suggerimento: per non perdere l’equilibrio, anche quando le energie sembrano mancare, basta appoggiarsi al bastone della distrazione intelligente, dell’osservazione perspicace, della perplessità ironica, dell’umorismo coraggioso. E attribuire un significato a tutto, dalle “stelle” ai “bicchieri”, con uguale attenzione e interesse. Potrebbe essere un modo per assicurarsi una porzione quotidiana – per quanto modesta – di felicità.
Succedeoggi.it, ottobre 2014