Sarebbe meglio forse nemmeno parlare di poesia in dialetto, cioè non definirla come tale, evitando di costringere in tal modo in una categoria che suona riduttiva una produzione letteraria che appartiene di fatto al nostro patrimonio culturale comune. La poesia o è poesia o non lo è, in qualsiasi lingua essa venga scritta. Del resto se la lingua poetica si mostra, almeno negli ultimi secoli, come costituzionalmente anacronistica, il dialetto entra di forza e senza alcun limite nel novero delle espressioni fuori del tempo e perciò dunque intrinsecamente poetiche. Succede peraltro che risieda proprio in questo anacronismo la possibilità di affondare lo sguardo nel presente senza le formule e i codici, le celebrazioni rituali, che il presente impone. Il dialetto, che è sempre meno linguaggio della comunicazione quotidiana e ancor meno espressione della cultura contemporanea di un territorio, riesce più facilmente ad evitare gli scivolamenti di una lingua letteraria troppo schiacciata su modelli preordinati, troppo orientata dalla voglia di piacere più che da quella di dire. Paradossalmente, più i dialetti sono lontani dal presente della comunicazione, una lingua dunque quasi reinventata ad uso della letteratura, più essi sono confinati in ambiti comunicativi ristretti, e più riescono a parlare delle nostre vite nel presente.
E’ il caso, ad esempio, del siciliano Nino De Vita, di cui ho scritto non molto tempo fa su questo stesso web magazine, ed è il caso di Andrea Longega, veneziano che vive a Murano, che ha all’attivo già numerosi libri di poesie e diverse collaborazioni con le preziose Edizioni dell’Ombra di Gaetano Bevilacqua. Longega ha esordito in volume nel 2002 con i versi di Ponte de mèzo (Campanotto) e ha da poco dato alle stampe, per i tipi di Atì editore, la raccolta La seconda cicara de tè. Il poeta veneto è un appartato, poco propenso a partecipare al brusio tanto invadente quanto vacuo che caratterizza i tempi in cui viviamo, meno che mai appare interessato alle trite liturgie letterarie. Eppure la sua voce poetica, che si esprime in un veneziano gradevole e tenue, avrebbe ben diritto di essere ascoltata dal maggior numero possibile di lettori, numero che si sa, per quanto riguarda la poesia e in particolare quella dialettale, è per definizione già irrimediabilmente contenuto. Piuttosto il poeta si dice impegnato, come si ricava da una poesia della raccolta, nel “duro far niente davanti a ‘sto blu potente”, che è poi quello del cielo, ma anche più in generale il colore che riassume l’esistenza.
Questo “duro far niente” gli permette di porsi nella condizione dell’osservatore, spesso incantato o commosso o solo meravigliato dallo spettacolo che gli si pone dinanzi. Solo che lo sguardo di Longega tende ad essere attratto dai particolari all’apparenza insignificanti, a soffermarsi sulle scene marginali, sui dettagli. In questo modo l’insieme si annebbia e si sgretola, e proprio nel frantumarsi la realtà viene a manifestarsi nei suoi aspetti più sorprendenti. In altre parole, Longega ci guida a guardare le immagini ricorrenti della quotidianità, mettendone a fuoco le minuzie, le sfumature, che ci appaiono, attraverso questo sguardo ravvicinato e limpidissimo, come eventi inusuali e straordinari. In una sera piovosa, ad esempio, “nel campo belissimo / e lustro de piova, xe là che ne spèta un indian / gióvine, a mostrarne le so tante ombreléte, / le fa pènder nere dal brasso – a milioni / come schiapi dolenti de pipistreli”. E questi ombrellini, che pendono neri dal braccio del venditore indiano a milioni come stormi dolenti di pipistrelli, ci danno l’idea di come la poesia possa reinventare la realtà, raccontarcene il mistero e il miracolo.
Longega comunque non vuole mai stupire, non forza la lingua nel tentativo di produrre effetti speciali, ci dice solo che il mondo è fatto così, che è stupefacente proprio nel punto dove appare maggiormente ordinario. Anche la lingua dunque procede senza scossoni: è un veneziano pacato, sussurrato, esile. D’altra parte non c’è nessuna verità da dichiarare, né positiva né negativa: nella poesia di Longega c’è solo da scoprire armonie e incongruenze del mondo, sbandando verso non si sa dove e rischiando “de intoparme su i gàtoli” (di inciampare nei tombini), c’è da guardare la realtà con gli occhi “sfocati e cisposi”: “Lassé che vada, anche se fasso scagióni / anca se rischio de intoparme su i gatoli / lasséme vardar ‘sto mondo belo / i merli che córe tra erba e maségni / e in fondi / più in fondi, fin dove rivo / co ‘sti oci turbi e incaramelai”.
Del resto cosa può fare la poesia, se non costatare che il mondo non può essere compreso e dunque nemmeno spiegato? Le poesie son merce di poco conto, prodotti di tutti i giorni, anche quelle di un libro dolente e necessario come è La seconda cicara de tè. Il poeta vorrebbe allora portarle “al frutariòl” per fargliele vendere con lo stesso entusiasmo con cui vende ogni giorno la frutta, anche le arance che sono “rànseghe” (rancide). E quando le vecchie chiederanno se sono buone, il fruttivendolo risponderà “bóne? eccezionali”: “Care, le mie vecie – conclude il poeta – che no vede / che le xe tute macae”.
Sono tutti ammaccati i versi: è il destino della buona poesia.
Pubblicato sul web magazine Succedeoggi.it