Le scuole di scrittura sono ormai presenza costante e invadente nel panorama letterario nazionale, tanto che per gli aspiranti scrittori (soprattutto narratori, ma negli ultimi tempi lievitano le scuole di poesia) sembra una necessità frequentarle, mentre insegnarvi è un segno di avvenuta acquisizione dello status di letterato(-laureato). Scuola di scrittura (Confinamenti) è il titolo di una pregevole raccolta di poesie di Domenica Mauri, pubblicata da peQuod. Non sfugga innanzitutto il sottotitolo, in apparente contraddizione con l’intestazione principale, che ci porta immediatamente in un terreno incerto, in uno spazio chiuso, nel luogo dove gli incontri sono rischiosi se non del tutto vietati. Il pensiero infatti va subito al confinamento da epidemia, a cui rimandano del resto i primi testi del libro: “E quella che si vede dalla finestra è una piccola piazza // deserta. E le strade che si diramano dalla piazza sono / quattro piccole strade deserte”, ad esempio.
Come dall’interno di un territorio delimitato da una barriera, che guarda verso una terra desolata, si propagano le annotazioni e le tracce che costituiscono le indicazioni, gli inviti e gli avvertimenti di questa scuola di scrittura. Con un procedere anonimo e sottovoce, da annotazione repertoriale fredda e distaccata, come di avvisi trascritti su un’agenda, Domenica Mauri, con formule lucide velate d’ironia, a tratti di un controllato sarcasmo, mette a registro che ogni cosa mostra anche il proprio contrario, contiene in sé, a ben guardare, un’altra faccia che la nega o la contesta. Ogni avvenimento già accaduto, e che dunque come tale dovrebbe persuaderci di essere vero, presenta “margini di incertezza, ipotesi perse, lasciate perdere”, di ogni fatto passato restano “contraddizioni, pieni, vuoti, forme incongrue estinte”.
Una credibile scuola di scrittura in fondo, suggeriscono queste poesie, può solo farci notare l’incoerenza e la dissonante precarietà di tutto quello che ci è intorno. Nella poesia Rielaborazione è contenuta un’indicazione esplicita sulle zone di azione della scrittura, incompatibile con l’idea che possa esserci spazio per una parola letteraria assertiva e consolatoria: “Sarà permesso immaginare che in uno stesso istante può / accadere tutto o niente, che senza la scrittura non può / rimanere né il tutto né il niente, che in ogni caso l’alfabeto / sta dalla parte del niente, occupa la zona del niente, tiene / per il niente, lo sostiene, sostiene il niente anche quando / tratta del tutto.”
Utilizzando di solito un verso lungo o lunghissimo, che tracima a volte nel rigo successivo, alla ricerca di un ritmo prosodico che scantona in brevi accenni lirici, Mauri ci dice che la letteratura è continuamente proiettata verso la vita, ma non è la vita, non riesce a riprodurla né a raccontarla. Può solo tentare di dircene l’ambiguità delle forme, di analizzarne l’incostanza e l’illogicità. Insomma la vita è altrove, oltre il confine, forse abita in un territorio lontano anche dalla vita stessa: “In questa poesia non succederà niente perché / è già successo tutto altrove. / E anche se c’è la cosiddetta urgenza di dire / in effetti qui non succederà niente perché / è già successo tutto altrove. / E anche quello (quella) che si para di fronte / e fissa qualcosa (qualcuno) / e forse vorrebbe dire (gridare bisbigliare) / poi non dirà griderà bisbiglierà niente perché / è già successo tutto altrove.”
La scuola di scrittura può solo insegnare (ma le scuole di scrittura, per loro statuto costitutivo, diciamolo, fanno esattamente il contrario) che non esiste una via certa, non c’è una verità, la realtà non è solida e quindi per sua stessa condizione non è realistica: “Scovare un narratore onnisciente. / fargli trovare un telaio, una trama, un ordito, un ago, / una garza, un filo, un orlo scucito. / Fargli cambiare il trovare con il perdere. / Fargli contenere la verbosità. // Al narratore onnisciente far perdere la bussola, la via di transito, quella di scorrimento (veloce o lento). / Fargli perdere la via principale e anche la secondaria. / Al narratore onnisciente far perdere ogni traccia, / pacificamente o sotto minaccia”.
Mauri dispensa indicazioni, spesso ammantate di ironia, con la consapevolezza che l’unica indicazione possibile sia quella che non porta da nessuna parte, perché non c’è un luogo certo dove una storia possa risolversi in una spiegazione o in uno scioglimento. Il modo in cui la scrittura si manifesta è simile all’atteggiamento di chi si trova di fronte a foto del passato che lo ritraggono: il gioco è “di volersi riconoscere / in ciò che non si è più” o “di non volersi riconoscere / in ciò che si è stati”.
Il passare del tempo rende ancora meno ipotizzabile ogni possibilità di capire e di comunicare. Ci guardiamo allo specchio e scopriamo rughe, una piega degli occhi dove “una forza di gravità moderata ma decisa / fa il suo mestiere” e potrebbe essere una forza “che mette insieme antenati e viventi / specie simili parenti dimenticati / Come trattenuti a stento o di nascosto / senza volerlo davvero”. Questa forza sembrerebbe tracciare una linea, lievissima quasi evanescente, ma comunque tale da produrre una speranza che un ordine sia possibile, ma forse invece tutto avviene “per caso // o come quando si fa qualcosa così / a tempo perso”.
La possibilità che alla scrittura non appartengano solo incertezza e domande è contenuta nella poesia Idillio. Ma si tratta di una prospettiva che guarda ancora verso il niente: “Qualcosa sarà fatto continuare / nel delirio continueranno un astro / un angolo di verde un rumore / come segno orma esame di fisica // Reperto fenomeno da osservare / trattenere con calma prima / che si concluda definitivamente / chiuda”.
Pubblicato su Succedeoggi.it
La foto di copertina è di Giuseppe Grattacaso