di Alessandra Santangelo
Giuseppe Grattacaso è deciso e tagliente come una folata di bora, sincero come i versi di Saba al quale rende omaggio riuscendo a far poesia di trattorie triestine («le trattorie a Trieste, non si sbaglia,/ sono un rifugio, forse il fritto sbarra/ l’ accesso alla tempesta/ forse perché la poesia onesta/ ha casa solo qui/ tra queste strade dove fa festa/ il vento e non delude la luna/ madreperla fra le nubi»). I versi di Grattacaso si leggono d’ un fiato – la prima volta – come un sorso di vino bianco e fresco (il Fiano d’ Avellino, campano non a caso, come l’ autore) che sembra leggero ma che leggero non è. Ci si ritorna infatti, dopo la prima lettura che scivola sciolta fra endecasillabi, allitterazioni e rime, con più calma ma con lo stesso sorriso perché sempre colpiti da sottile arguzia e da certa ironia. Dismessa la melanconia dei grandi maestri, rimane l’ uso sapiente della parola e un pensiero acuto che va dritto al cuore del senso e delle cose comuni e le rivela sollevando la veste dell’ abitudine, mostrando non la verità – appannaggio altrui – ma un punto di vista da un luogo diverso, la pausa («Ma chi lo dice che saremo salvi/ solo bruciando tra mille attività?/ In ozio la barbarie è debellata/ e la pigrizia da sempre è santità»). È un incantato disincanto dove i corridoi non sono offesa per architetti razionalisti ma «pista per lunghe scivolate, un alberato viale, terra di passaggio, tenebroso antro» e le attese dell’ infanzia, spensierata curiosità. E le donne e l’ amore sono un miraggio a cui piace restare tale, perché il mondo corre ma il poeta resta fermo, il suo dovere è guardare.
Corriere della Sera, 14 marzo 2010