Varco anni luce, gli abissi siderali,
oltrepasso galassie, le comete,
posso vedere ma non lo conosco,
quello che è luce e quello che è nel fosco
del buio infinito. Ma se mi addormento
sparisce tutto quanto, è nello sguardo
la stella più lontana e il mio tormento
di non sapere, il dubbio non risolto
di essere dispersi e andare avanti
per sempre naviganti e non c’è mare.
Perciò se fosse lo sguardo circoscritto
a poche miglia, noi sapremmo solo
il glicine, il limone marzaiolo,
il passero che salta e in un sussurro
il vento tra il ciliegio e il niente intorno,
tutto finito dopo pochi passi,
appena un po’ di cielo, un tenue azzurro
e poi più niente, solo rami bassi.
***
Tanta bellezza e tanta disperata
materia si confonde e si consuma,
smarrita si protende su voragini,
precipizi di nebbia in cui vagare.
Se siamo stati stelle, polverosi
residui d’energia universale,
appiglio interstellare, carboncini
dispersi nello spazio in espansione,
chiediamo un buco dentro cui franare,
un imbuto nel cielo, un fondo nero
che ci ridoni la nostra parte eterna,
ci faccia ritornare vagabondi
proiettili sfiniti e senza scopo,
atomi di carbonio sfarfallanti,
di idrogeno d’azoto, finalmente
visioni di materia svaporata,
vita passata e dimenticata.
***
La vita dei bicchieri e delle stelle,
tutta gentile e tutta risplendente
brillante di gas elio o detergente,
è quello che noi siamo e non sappiamo,
bagliore nello spazio quotidiano,
l’immediato presente e il più lontano,
è l’esistenza senza alcun confine
nell’universo, il gesto luminoso
della mano, il raggio che ci sfiora
e che si apparta, il cielo che rivela
la nostra carne terrena e siderale,
lo scompiglio del fiato universale.
***
La spirituale trascuratezza delle cose
un po’ dimenticate, non per sempre
ma qualche tempo a se stesse abbandonate,
un poco infreddolite e impolverate,
la loro permalosa non presenza
intenerisce. Cariche d’affetto
non chiedono carezze, non lusinghe
le fa felici, ma appena strattonate
e riportate alla nostra intimità,
alla fierezza di dirsi ancora usate,
le vedi ardite, già ringiovanite.
Le sedie, per esempio, quelle sedie
delle quali più non ci accorgiamo,
mute presenze, lasciate in qualche parte
remota della casa e che ad un tratto
per festa o cena son recuperate
all’uso primigenio di sedute,
senza preavviso e senza allenamento,
come eleganti si pongono al servizio
dell’ospite imprevisto, come sono
cedevoli e gentili, vagamente
di sé perplesse, ma subito impegnate
a farci accomodare, un poco lente
nel ricordare, eppure già preziose
nella timida grazia personale.
***
Beati si addormentano i cucchiai
ripensando alle bocche, ai caldi abbracci
timidi e sorseggianti, orizzontali
percorsi per le labbra prominenti,
la franchezza dei denti, giovinezza
del gesto d’equilibrio della mano,
il lento approccio verso il fiato umano,
la molle cerimonia della lingua
che attende abbandonata e consenziente.
Si distendono col capo reclinato,
rigidi e curvilinei, conservati
nell’ombra dei cassetti, tra i colleghi,
le forchette i coltelli, addormentati.
***
Ma io senza il mio corpo non so stare,
non l’abbandono per correre da te,
anima spudorata ed incombente,
non lo rinnego per quattro malefatte
che l’hanno spento, un poco consumato.
Senza il mio corpo, anche se sbiadito,
rimango senza fiato, dove vado,
mi sento perso, ed anche se le colpe
si traducono in macchie sulla pelle,
nel passo pigro, l’occhio riluttante
ad una messa a fuoco resistente,
da te non lo ricovero davvero,
anima maliziosa e supponente,
di certo non l’affido al cicalare
molesto fastidioso e fuori tono,
a quell’accento astratto e spirituale
che induce in tentazioni e pentimenti.
Lo tengo stretto il corpo, non sfinire
con la leggenda che il fisico è malfermo,
si trascina in affanno, mentre tu
volteggi certa di un destino eterno.
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