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Il vecchio albero

di Maurice Maeterlinck

Penso agli alberi che ho conosciuto. Ne ho conosciuti molti, avendo vissuto molto spesso in campagna. Li rivedo come se fossi ancora sotto la loro ombra. Mi rammento i loro nomi, i loro visi, i loro caratteri. Il ricordo di un bell’albero, amichevole e fedele (lo sono tutti), può avere sulla nostra vita e sul nostro destino la stessa influenza che il ricordo di una donna o di un uomo.
Li ho sempre amati e ho sempre avuto pietà di loro. Sono i grandi sacrificati, le più innocenti vittime delle ingiustizie della natura. Eterni prigionieri, incatenati dalle loro radici, rassegnati impotenti, non possono fuggire la tempesta e non aspettano che sventure. D’inverno, nudi e scheletrici, aggrediti dalla neve e dal ghiaccio, tremano nelle tenebre. Solo gli uccelli li frequentano, li abitano, li svegliano, parlano loro del cielo, e insegnano loro a sorridere…
Sono tutti condannati al supplizio della morte immobile, della morte che avanza e che non si può evitare. È vero che anche le piccole piante muoiono della stessa morte: ma almeno le loro sofferenze non si prolungano per anni. Esse cessano di vivere non appena fiorite, mentre i loro fratelli maggiori attendono per secoli l’ora della liberazione.

Maurice Maeterlinck

Sono stato l’amico di una vecchia quercia che viveva pacificamente in un piccolo bosco che possedevo a Médan, nei dintorni di Parigi, e che i tedeschi hanno bruciato.
Quest’albero maestoso, che mi ricordava la quercia di La Fontaine, aveva molto sofferto. Si ergeva su una sorta di falesia che dominava la strada da Poissy a Rouen. Il terreno non era per nulla profondo e le radici avevano fatto miracoli per trovare qualche nutrimento nella roccia. La quercia sembrava al limite delle forze e del coraggio. Una sera di tempesta, il fulmine l’aveva colpita al cuore. Moriva di fame, lentamente ma con dignità. Preoccupandomi della sua salute, le facevo visita due o tre volte alla settimana. Lei non mi diceva nulla, ma io sentivo che le faceva piacere. Ogni primavera, con grande sforzo, lei rinverdiva qualche ramo, che non aveva di che nutrire fino all’autunno; e dalla fine d’agosto, rientrava nel sonno profondo dell’inverno.
Ebbi compassione della sua agonia che si prolungava senza speranza, la svuotava, la consumava, la faceva visibilmente soffrire. Detti l’ordine di abbatterla. Non ebbi cuore di assistere al sacrificio. Crollando, uno dei suoi grandi rami uccise un taglialegna. Mi dissero che l’albero non l’aveva fatto di proposito. Il taglialegna era ubriaco.
Venne tagliato l’enorme tronco. Gli anelli concentrici registravano trecentocinquanta anni. Dalla larghezza dei cerchi si distinguevano abbastanza facilmente le annate di siccità, di sofferenza e di miseria, dalle annate di pioggia e di prosperità. Come nelle vite umane, gli anni di sofferenza e di miseria erano più numerosi degli altri.
Che venne fatto dei suoi resti? Non ho voluto saperlo. Dove vanno gli alberi morti? Sappiamo dove andiamo noi?

©giuseppegrattacaso

Le vieil arbre è stato pubblicato nel 1946 all’interno del volume L’autre monde ou Le cadran stellaire. Maeterlinck, premio Nobel per la Letteratura nel 1911, è autore di importanti testi teatrali, raccolte di poesia,  saggi scientifici e filosofici. Nato a Gand, in Belgio il 29 agosto del 1862, è morto a Nizza il 6 maggio 1949.

La traduzione è mia. I diritti sono riservati.

3 risposte a “Il vecchio albero”

  1. Evaristo Seghetta Andreoli

    Sono talmente in sintonia con Maeterlink che commento con i miei versi tratti dalla raccolta In tono minore:
    Il vecchio ciliegio
    Sto aspettando il taglialegna: tra poco verrà,
    per abbattere il vecchio ciliegio
    – l’eutanasia per un albero malato –.
    I rami rinsecchiti, il tronco ferito
    meritano comunque una libagione
    per l’ospitalità offerta agli storni.
    Ma il tempo è poco, occorre fare in fretta,
    e verso un po’ di vino nel fusto cavo.
    Ecco l’accetta lucente che brilla
    già in fondo alla strada.
    Ho scelto febbraio per l’addio,
    prima che le gemme illudano la primavera.
    E quando a sera, la luna
    non troverà più i rami da penetrare,
    la sua luce glaciale striscerà
    sui vetri del mio rimorso.

  2. Susy Gillo

    Metafore e simboli della poetica di fine ottocento.
    Quel trasmettere no le cose ma le proprie impressioni.
    Per Maeterlinck, la parola ha perso il suo valore originario, ma proprio nel vuoto della parola l’uomo deve ascoltarne il silenzio. Il vuoto, per Maeterlinck, corrisponde alla ricerca dell’anima.
    “Il cammino della goccia”
    L’infinità mente piccolo che ha in sé la grandezza dell’Universo.

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