Cristina Alziati, Quarantanove poesie e altri disturbi, Marcos y Marcos
Guardare alle vicende della storia, sia essa collettiva o personale ‒ se poi una storia assolutamente individuale può davvero da sola manifestarsi e avere un qualche senso ‒ può significare dover scoprire la presenza di un dolore universale, un male che affligge senza ragione esseri umani, animali e cose, anche se a volte sono proprio gli uomini a generarlo o almeno a contribuire alla sua esistenza. La vita stessa sembra avere in sé i germi della decomposizione, l’ipotesi della mancanza, l’idea di qualcosa che non torna e che pure sempre si ripresenta.
Ma l’esistenza è anche contemplazione delle manifestazioni tante e varie della natura, tutte egualmente fragili e affascinanti, e tutte straordinariamente sorprendenti. I versi di Quarantanove poesie e altri disturbi, la raccolta di Cristina Alziati recentemente edita da Marcos y Marcos, si muovono alla ricerca di un punto di equilibrio, peraltro forse impossibile, tra gli eventi che avvertiamo come Storia, le azioni degli esseri umani e le loro conseguenze, e quello che esiste a prescindere da noi ‒ che spesso chiamiamo Natura ‒ ma con cui condividiamo il destino, e che sempre, come la Storia del resto, vive anche dentro di noi, lasciando in noi cicatrici e speranze, moti di affetto e sofferenze, assenze.
Con una lingua rarefatta, ad un tempo nitida e incorporea, capace di assorbire asperità e oscurità della materia trattata; attraverso una musicalità pacatamente aperta sul mistero dell’esistenza, tale da suggerire vaste zone di non detto e territori in penombra, Cristina Alziati passeggia per un mondo del quale sa apprezzare, confidando gli esiti al lettore, il fiato interiore, e del quale ascolta “il suono del disordine / erompere nell’ordine un istante / ogni mattina”.
Lo sguardo che si apre su questa realtà disorientante e disarmante, è insieme adulto e infantile, palpabile e sognante, rigoroso e sorpreso: “Sostiamo un breve istante, ogni mattina / davanti al filadelfo in fiore, e tu pronunci / in quella brevità, poche parole / ripeti ‘bianco’ e ‘fiore’, e io non so / se affermi l’essere del bianco / accerti l’essere del fiore / o invero se contezza ne domandi / giacché della continuità tu forse / la chiara forza, cogli, che l’incrina”.
Un atto interviene a scomporre l’insensata, eppure in qualche modo accurata, disciplina del paesaggio: sia esso un vento naturale o storico, casuale o determinato dall’intervento degli esseri umani, qualcosa fa intravedere un disagio o un miracolo, o lascia intendere il timido rumore che segnala l’aprirsi di una crepa. I versi sono chiamati a costruire un nuovo assetto, a tentare di riordinare il reale nel quale però le età ‒ dell’infanzia, del presente, di un altrove senza più tempo ‒ si confondono e si moltiplicano. “Un ronzio proverrà dalle stanze / stupefatte dell’infanzia, allora / e io resterò dove sono, altrove”, è scritto a conclusione della poesia Cose ubique, dopo che l’io si è posto in osservazione di un bombo che vola intento da un papavero all’altro, “cerca il nettare nero dentro il maggio / odoroso, mentre infuoca il sole”. Ma anche questo piccolo quadro di serenità è destinato a mutare; “Più tardi sarà sufficiente una nube / un cambio di luce, di colore / e quello se ne andrà chi sa dove”.
L’azione dell’uomo ha pesanti ripercussioni sulla natura e sulla vita degli esseri viventi, anche degli stessi umani. È opera dell’uomo, del resto, anche “l’isotopo più radioattivo, di plutonio / quello di Fukushima”, la centrale dove si verificò nel 2011 un gravissimo incidente nucleare, che “ora brilla / nell’occhio della carpa”. È un atomo che “dimezza in anni ventiquattromila / e anch’io ne respiro ogni giorno”. La considerazione avviene mentre “cade disfatta la neve / sopra il piccolo lago alpino / sulla piccola chiesa con i cicli di affreschi”. Tutto è contaminato, anche il riposante paesaggio tra i monti. Niente si salva, ogni cosa ormai è diventata veleno che continuerà ad avvelenare la terra: “E la neve / che cade disfatta e io e i bambini / e la carpa e gli strati di calce / soltanto veleno”.
Le poesie dedicate all’ambiente naturale e ai suoi protagonisti ‒ casuali attori su un palcoscenico su cui ci muoviamo anche noi, partecipi e intimoriti, commossi e sospettosi ‒, come avviene nell’ultima, abbagliante, sezione del libro, L’airone, sembrano alla ricerca di un silenzio che sia prova di una definitiva collocazione di tutto quello che abbiamo intorno. Il tono di questi versi, la contemplazione a tratti estatica a cui rimandano, il tentativo di recuperare una profonda armonia verso cui si indirizzano, fanno pensare a una sensibilità tipica della tradizione poetica e filosofica orientale: “Ranocchiule al crepuscolo hanno preso / di nuovo a gracidare. Domani, alta la luce / torneranno a sparire in qualche acqua / e così via, lungo l’intera estate. Alta la luce // tu non parli nemmeno con le erbe / al crepuscolo nemmeno con la luna. / E così via, lungo un silenzio / perfettamente estinto”.
La realtà e la finzione hanno confini labili, le nuvole, la terra, i licheni, le stelle, i papaveri, il glicine, la rosa canina, caparbiamente difendono il segreto che potrebbero rivelare. La poesia di Alziati, come il suono prodotto dal violoncello di cui racconta nella poesia Disturbi dell’udito è aspra e insieme maestosa. È una poesia che racconta di un mondo tenero e agghiacciante, che si direbbe nasca, è ancora un suo verso, “dal chiarore dell’inesistenza”.
Pubblicato su Succedeoggi.it
La foto di copertina è di Giuseppe Grattacaso