Guido Gozzano, I Colloqui e altre poesie, a cura di Alessandro Fo, InternoPoesia
Un responso e una condanna, non solo una scelta o un ostentato atto di indisciplina di fronte alle regole dell’esistenza. Nel mettere in scena se stesso nel personaggio di guidogozzano nella poesia d’apertura che dà il titolo alla raccolta La via del rifugio, pubblicata nel 1907, il poeta Guido Gozzano ci rappresenta il suo alter ego “supino nel trifoglio”, abbandonato all’ascolto della cantilena che intonano le tre fanciulle “bimbe di mia sorella”, poi sofferente quando “la bella filastrocca / si spezza all’improvviso” e deve assistere allo strazio della cattura e della morte di una farfalla Vanessa Io, “Bellissima. D’inchiostro / l’ali, senza ritocchi / avvivate dagli occhi / d’un favoloso mostro”, che perisce trapassata dallo spillo impugnato da una delle nipoti. È in questo momento che si fanno più fitte le domande per il guidogozzano più che mai passivamente disteso, per nulla interessato ad assumere qualsivoglia iniziativa (“e vedo un quatrifoglio / che non raccoglierò”): “A che destino ignoto / si soffre? Va dispersa / la lacrima che versa / l’Umanità nel vuoto?”. La domanda, che con eco pascoliana giunge fino al prato di trifoglio attraversato imprudentemente dalla bella Vanessa e che ci ripropone la gratuità con cui opera il Male in questo “atomo opaco”, ha una risposta in quell’atto mancato, nella rinuncia a raccogliere il quadrifoglio, nella cancellazione addirittura dello stesso desiderio di agire in tal senso e insieme di ogni altra aspirazione. Perché la Vita, come sentenzia il personaggio disteso, è un gioco “degno di vituperio, / se si mantenga intatto / un qualche desiderio”.
Qual è dunque la via da percorrere per raggiungere il rifugio, il luogo che ci mette al riparo dal Male e dalle nostre stesse domande? ed esiste poi davvero un rifugio nel quale trovare protezione, che non sia costituito dall’abbandono di ogni aspettativa, dalla cancellazione del desiderio? Ne dà conto con partecipata adesione, amichevole verrebbe da dire, Alessandro Fo nella bella introduzione a I Colloqui e altre poesie. Il volume, edito da InternoPoesia e curato dallo stesso Fo, si compone oltre che della raccolta maggiore del poeta, edita da Treves nel 1911, da una scelta di poesie dall’altra silloge pubblicata in vita, La via del rifugio, e da una selezione della restante, peraltro esigua, produzione.
Nel breve saggio introduttivo dal titolo quanto mai chiarificatore ed evocativo Ma c’è un rifugio? Un tentato colloquio con “guidogozzano”, corredato da un robusto ed eloquente impianto di note e da una significativa indicazione bibliografica, Alessandro Fo offre una precisa segnaletica per indirizzarsi verso alcune “strade”, percorribili per rileggere il capolavoro gozzaniano e per comprendere al meglio la condizione, sempre filtrata dal velo della malinconia e motivo dominante della lirica gozzaniana, di un’ironia che si risolve spesso in contrasto, in un’irrisolta e mesta riflessione interiore. In fondo il dissidio si condensa tra la possibilità di vita attiva, come è suggerito dal personaggio femminile di Un’altra risorta (“Fare bisogna. Vivere bisogna / la bella vita dalle mille offerte”) e la necessità, dall’altra parte, di sapersi rassegnare “a un’esistenza umbratile – come scrive Fo – fatta di tanti modesti carpe diem”. “Solo in disparte dalla molta gente – è Gozzano che risponde alla Risorta – ritrovo i sogni e le mie fedi spente”. Nel fondale che delimita il palcoscenico c’è la “fede letteraria”, quella che per un attimo si può pensare di rinnegare per la signorina Felicita e per il suo mondo, semplicemente, e forse felicemente, operoso, perché la letteratura, dal canto suo, rendendoci insieme immobili e malfermi, “fa la vita simile alla morte”.
Il contrasto, o se vogliamo il “colloquio”, è dunque ancora una volta quello tra l’esistenza attiva (“meglio la vita ruvida concreta / del buon mercante inteso alla moneta”), e la contemplazione, che per Gozzano si traduce nella possibilità di abbandonarsi al sogno, così da rimanere “estranio / ai casi della vita”.
L’impressione è che Gozzano metta in scena, insieme al suo guidogozzano mezzo assopito prima ancora di riconoscersi tramortito dall’esistenza, e forse da lui esemplarmente rappresentato, il profondo malessere di un’epoca divisa tra i lustri della Belle Epoque e l’angoscia prodotta dal progressivo scivolamento verso le miserie del primo conflitto mondiale. Forse anche per questo, come giustamente sottolinea Alessandro Fo, l’ “ironia gentile” del poeta “travalica il cinismo di molte sue autorappresentazioni, per lasciare spazio alla bonomia o, meglio, a una fondamentale pietas”.
L’agile volumetto di InternoPoesia, agile e così denso di contenuti, ci restituisce alcune fondamentali domande su un poeta (del resto, la poesia, quella vera, non ci dona sempre e nulla di più che interrogazioni?) la cui presenza nella letteratura del Novecento, sia pure biograficamente limitata dalla malattia e dalla morte precoce, ha lasciato tracce ben più significative di quelle, delimitate dal confine crepuscolare, nelle quali si vuole relegarla. In questo senso l’ “attraversamento” del D’Annunzio, di matrice montaliana, è solo uno dei percorsi che è possibile seguire. Ci sarebbe da dire dell’inusuale e non banale poetica degli oggetti (altra cosa dalle famigerate “piccole cose” dal gusto, si sa, che volge al pessimo), del controllo da sapiente equilibrista di registri formali e lessicali distanti, della forte connotazione narrativa connaturata a soluzioni decisamente liriche, della malcelata propensione a non credere a quello che pure, con beffardo umore, si afferma. Tutti tratti e connotazioni che avranno ampio e multiforme svolgimento nel corso del Novecento.
Gozzano in fondo risolve nel disincanto e nel distanziamento dalle cose del mondo il proprio amore per il mondo, nella certezza, che si manifesta in un terrore che si traduce in riluttanza, che è bene non coglierlo quel “quatrifoglio”, perché forse nemmeno esiste, e se esiste non è detto voglia significare davvero qualcosa. Il sottile stelo e le quattro foglioline forse ci sono solo nella nostra visione, nella possibilità che abbiamo di costruire l’esistenza con l’immaginazione. Restano gli oggetti di un quotidiano di poche prospettive su cui accordare “le sillabe dei versi”, resta il sogno “nutrito d’abbandono”, “le rose che non colsi”.
Non è un caso allora che l’unico altro volume di Gozzano pubblicato in vita, oltre ai due già citati di versi, sia un libro di fiabe, I tre talismani, edito nel 1914. E non è poco significativo che nei mesi precedenti la morte, avvenuta nel 1916, il poeta abbia lavorato a un poemetto didascalico sulle farfalle, incompiuto e di cui comunque rimangono ampi stralci. Un modo, sembrerebbe, per stornare su presenze incorporee e ideali “il superstite amore adolescente”. L’amore che si rivolge verso qualcosa di impalpabile e mutante, la farfalla, “l’animato fiore senza stelo”, il fiore cioè che non può essere colto. Si tratta, come suggerisce sommessamente Alessandro Fo, dell’ “estremo (anche perché intrinsecamente caduco) tentativo di rifugio”.
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