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IL LETTO VUOTO di Alberto Bertoni (Nino Aragno Editore)

“So solo che da oggi sto sospeso / in questo limbo orfano / e ci annego / galleggiando avanti e indietro / disancorato da tutto il mio status / senza più tempo né cielo”. I versi, tratti dalla poesia Successione, possono servire a introdurci nel vivo dell’ultimo libro di poesie di Alberto Bertoni, Il letto vuoto, pubblicato da Nino Aragno Editore. Bertoni si conferma poeta in possesso di un grande controllo del mezzo espressivo, di una lingua sempre in bilico tra lirismo e parlato, comunque attenta all’aspetto comunicativo dell’esperienza poetica. 
L’assenza a cui fa riferimento il titolo è data dalla scomparsa della madre, che segue di pochi anni a quella del padre, a cui erano in gran parte dedicate le liriche della precedente raccolta Ricordi di Alzheimer. Il “limbo orfano”, in cui l’autore si trova costretto è un luogo segnato dalle assenza delle persone care (tra queste c’è da ricordare il poeta Giovanni Giudici, la cui presenza ritorna nei versi della raccolta, figura centrale nella formazione artistica ma anche negli affetti di Bertoni), ma anche dall’impossibilità, realizzata la mancanza di punti solidi di riferimento, di trovare una propria collocazione soddisfacente, di sentirsi comunque artefice di un destino. Il futuro è destinazione senza senso, si è padroni, infatti solo del passato, e al passato Bertoni declina spesso i suoi versi, cercando in giorni lontani una ragione dell’esistenza. Ma la memoria non regge ai colpi del trascorrere del tempo e del degenerare delle cellule, non può essere un riparo, anzi diventa tessuto che si scompone e si sfilaccia, è un contenitore dove gli oggetti si accumulano alla rinfusa e si deteriorano, una cassapanca che raccoglie “pure cianfrusaglie”. A nulla vale cercare di mettere ordine, nemmeno la poesia è utile a riorganizzare il passato, può solo costatare il disgregarsi di ogni realtà, con l’inevitabile risultato che il letto rimane appunto vuoto: “Però neanche adesso lo risolvo questo vuoto / semplicemente mettendo a posto / un oggetto o quell’altro”. 
Le diverse raccolte poetiche di di Bertoni contribuiscono a comporre una sorta di autobiografia in versi (i modelli novecenteschi sono senz’altro Saba e Giudici), disposta sulla linea di una perdurante fedeltà ai luoghi della giovinezza e alle persone che quella età hanno animato e resa indimenticabile. In una delle prose che contrappuntano le liriche e che facilitano il lettore nel collocare i versi in una geografia, Bertoni scrive che “qualcuna” dovrà pur spiegargli cosa significa nel nostro mondo essere adulti: “praticare gli acquisti più scaltri, essere un top troppo presto scavalcato o insegnare a dei figli straviziati la correttezza politica o animale?”. 
La confessione di cui Bertoni ci rende testimoni è senza veli, nulla evita o aggira, eppure risulta estremamente pudica, come se il protagonista volesse in fondo dirci che nessuna vita può veramente aspirare a spiegare l’esistenza, nemmeno quella di chi scrive: “Vacilla allora il corpo / privo già di sguardo / la testa che sbatte sul duro / ed è pensiero nudo / col suo odore di cenere, la ruggine del tempo / mentre m’infilo in un dedalo di strade secondarie / finché un banco di nebbia non m’inghiotte / e che vada o non vada / viva o non viva / non riguarda più nessuno / me stesso tantomeno”. 
Pur in questo paesaggio senza consolazione, la poesia di Bertoni ha il pregio di farci amare il mondo che descrive, di farlo apparire in qualche modo leggendario ed eroico. In esso tornano, oltre alle figure di cui si è detto, altre componenti abituali, già presenti nelle precedenti raccolte: il Modena calcio, l’Inter, i campi di bocce, dove il nonno “per eccesso di pudore, si limitava a guardare le sfide degli altri”, la città di Modena, spesso soffocata dal caldo estivo, lo scrittore Delfini, modenese anch’egli come Bertoni (e a Delfini è dedicata l’ultima prosa e l’ultima poesia del libro, un piccolo ritratto struggente e intenso, che vuole quasi indicare una ulteriore discendenza, rivendicare un’appartenenza). C’è poi il trotto, naturalmente, passione sempre viva tra i miti di Bertoni (come dimenticare una precedente raccolta dal titolo inequivocabile Ho visto perdere Varenne?) che offre appiglio ad una amara, ironica considerazione nella lirica Un purosangue di Longchamp (che, sia detto per inciso, è una pista adatta ai campioni, dove tra l’altro corse l’ultima sua gara il mitico Ribot): “Intanto è passata un’altra / estate, mia madre l’ho / ricoverata per demenza / e siccome conosco abbastanza, poverina / la genealogia equina / so che due brocchi trottatori / come i miei genitori / potranno fare tutto / ma non un purosangue di Lonchamp”.
(articolo pubblicato sul sito Giudizio Universale)

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