Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (La Nave di Teseo)
Tra le condanne che possono colpire un grande scrittore, c’è sicuramente la circostanza, che diviene poi una condizione stabile, di essere ridotto nello spazio ristretto di qualche formula statica e inalterabile. Nel codice rituale, che diventa una sorta di ricetta prescrittiva, anche un’opera ampia e complessa finisce per ritrovarsi in un’impalcatura costretta e limitata, dove rimane irrimediabilmente confinata. È il caso ad esempio di Giovanni Pascoli, che in quanto considerato autore che privilegia le “piccole cose” e che è concentrato sull’idea del “nido”, vede bruciata una parte significativa della sua immensa produzione in versi, tra cui i meravigliosi Poemi Conviviali.
Una limitazione analoga ha subito Giacomo Leopardi, del resto già messa in azione quando il poeta era ancora in vita, e poi cementata in decine di migliaia di pagine critiche, straripate in via definitiva nei manuali scolastici. Ne sono prova le Operette morali, tra gli esempi più alti della prosa italiana di ogni secolo e serbatoio di sterminate sollecitazioni per il pensiero di contemporanei e posteri, oltre che territorio di divertenti sferzate comiche, relegate spesso esclusivamente a documento che segna il passaggio dal “pessimismo storico” a quello “cosmico”, comunque opera da leggere, a detta di molti, con sguardo tetro e dunque evitando ogni sintonia con le intenzioni dell’autore. Si tratta di sortite estremamente riduttive, e in qualche modo rassicuranti (è lo scrittore insomma ad avere una visione distorta dell’esistenza e del genere umano, non l’universo a presentare sue proprie irreversibili caratteristiche), che hanno relegato l’autore dell’immenso Zibaldone a ricoprire il ruolo di uno sfiduciato tendente alla catastrofe, un disfattista in perenne crisi di tristezza e altrettanto incessantemente alle prese con la sua negativa e deprimente visione del mondo.
Un mausoleo critico siffatto (di fatto ridondante, come è proprio dei mausolei) ha determinato la messa al confino di opere non in sintonia con le formule adottate. È avvenuto così per il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, che il poeta scrisse a Recanati tra la primavera e l’estate del 1824, ma che venne pubblicato solo all’inizio del secolo successivo, nel 1906, quasi settanta anni dopo la morte. Vincenzo Guarracino ne ha curato ora una pregevole edizione, data alle stampe da La nave di Teseo, che ci permette di avvicinarci con rinnovato spirito a questo breve ma intenso trattato politico.
Guarracino inserisce il testo all’interno di uno spazioso e confortevole contenitore, costituito da un’ampia introduzione, significativamente intitolata Il tempo del Nord (“I popoli meridionali – scrive Leopardi a conclusione del trattato – superarono tutti gli altri nella immaginazione e quindi in ogni cosa, a’ tempi antichi; e i settentrionali per la stessa immaginazione superano di gran lunga i meridionali a’ tempi moderni”), e da un prezioso commento che fa seguito al testo leopardiano. La presenza degli scritti dello studioso, che a Leopardi ha già dedicato numerose altre pubblicazioni (a partire dalla Guida alla lettura di Leopardi del 1987, edita da Mondadori), dà modo di inserire Il discorso nel contesto storico, politico e di pensiero dell’epoca, in modo da renderne più agevole la lettura, senza che gli interventi a commento si sovrappongano al testo leopardiano, ma anzi offrendo gli opportuni strumenti necessari per la comprensione di alcuni passaggi problematici, resi più ostici dalle mutate condizioni culturali e dalla mancanza di precisi riferimenti contestuali.
Per quello che riguarda dunque le osservazioni sui costumi, sulla morale, sul comportamento sociale degli italiani, l’edizione del Discorso curata da Guarracino riesce a riportare le cose al loro posto. Altro che un pensatore che “offre se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate”, perché “a lui mancava disposizione e preparazione speculativa”, come ebbe a scrivere Benedetto Croce sulle riflessioni filosofiche di Leopardi, confortato negli anni a seguire da un’ampia schiera di seguaci. In sintonia con Luigi Baldacci, per il quale Leopardi è stato un filosofo politico “tra i massimi del nostro Ottocento”, Guarracino mette a fuoco la lucida, consapevole profondità e la straordinaria lungimiranza del pensiero leopardiano, E lo fa, verrebbe da dire, dando di nuovo la parola a Leopardi, cioè liberando il suo scritto dalle incrostazioni operate dal passare del tempo e dai fraintendimenti di tante interpretazioni. Ne viene fuori tutto lo spessore dell’opera, che fa di Leopardi uno scrittore politico, oltre che un incisivo moralista, nel senso più alto, e proprio, del termine. Tutto questo ci permette tra l’altro di comprendere gli esiti che il Discorso ha poi prodotto sugli scritti in prosa (penso ad alcune Operette) o anche sull’ultima fase della poesia leopardiana, in particolare sui Paralipomeni della Batracomiomachia, sulla Palinodia al marchese Gino Capponi e sulla Ginestra.
Leopardi sottolinea con vigore, nel tentativo di offrire la spinta a modificare certi atteggiamenti, le caratteristiche di un popolo che appare malato di un risentito individualismo, ma anche di un perdurante vuoto morale, che sono di fatto il risultato dell’assenza di un’etica civile collettiva. Con accorta osservazione, che diventa anche acuta preveggenza, il poeta sottolinea alcuni atteggiamenti degli italiani, che, tra l’altro, “ridono della vita” e “passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue”. Il nostro è un paese, e qui l’uso del presente viene naturale, dove non si discute pacatamente, ma ci ci sbrana invece di collaborare per il bene comune. La “strage delle illusioni”, come la definisce Leopardi con perentoria intuizione, il male di cui è vittima l’epoca in cui il poeta vive, non permette più agli uomini di agire per amore della gloria, e non si risolve nemmeno, come andava avvenendo nelle nazioni civili, con il trasformarsi nel sentimento dell’onore, che fa sì che gli esseri umani operino a vantaggio del bene comune, in quanto mossi dalla stima che in questo modo le loro azioni alimentano negli altri.
La grande lezione che viene anche dal Discorso, come da molte delle opere degli ultimi anni della vita del recanatese, è l’invito ad essere consapevoli della propria finitezza e della propria fragilità di esseri umani. Da questa consapevolezza deve derivare l’energia che può portare alla creazione di un nuovo modello di comportamento, non più segnato dal proprio tornaconto individuale, ma dall’idea che è solo l’azione fatta insieme agli altri e per il bene di tutti a dare valore all’esistenza.