di Roberto Mussapi
La vita dei bicchieri e delle stelle di Giuseppe Grattacaso è un libro da leggere, un libro felice. Difficile definire una poesia che pare di gusto e intonazione oraziana, ma contemporaneamente metafisica come i quadri di Morandi, dei quali però non condivide l’ossessività monotematica. Anzi, se comuni bicchieri animano questo libro, la sua ispirazione pare provenire da una coppa di champagne inebriante con le sue bollicine, come la musica di Mozart di cui parlava Kierkegaard appunto accostandola all’euforizzante panacea francese. Perché con leggerezza mercuriale Grattacaso con i suoi bicchieri mette in scena il dramma del vuoto e del pieno del mondo. Bisogna risalire alle celebri fiabe animate di Walt Disney, massime La Bella addormentata nel bosco e La Bella e la Bestia, per trovare il prototipo di una simile animazione delle cose: bicchieri, stoviglie, e qui lampadine, hi-fi, lavatrice: con un movimento rossiniano, improvviso e insieme incantato, gli oggetti della casa manifestano il dilemma e lo stupore della vita del suo abitante: “Non sono mai da soli nella resa. / Quando la lavatrice in preda a febbre / si stanca del risciacquo e pare zoppa, / vomita bile e acqua saponata, / sollecito il computer si deprime, / stacca la spina, gli gira un po’ la testa, / la lampada accusa un calo della vista, / prende un abbaglio e il televisore / lamenta uno sbalzo di pressione, / ritarda i tempi e la trasmissione / sfilaccia in annebbiato avvilimento. / (…)”.
Che il libro, attraverso l’animazione dei bicchieri e loro simili, interroghi gli astri e l’infinito, è esplicitato mirabilmente. “La vita dei bicchieri e delle stelle, / tutta gentile e tutta risplendente / brillante di gas elio o detergente, / è quello che noi siamo e non sappiamo, / bagliore nello spazio quotidiano, / l’immediato presente e il più lontano, / è l’esistenza senza alcun confine / nell’universo, il gesto luminoso / della mano, il raggio che ci sfiora / e che si apparta, il cielo che rivela / la nostra carne terrena e siderale, / lo scompiglio del fiato universale”.
In realtà il mondo delle cose domestiche è il mondo delle stelle, degli astri, che Grattacaso osserva incantato. Assume un quieto distacco alla Orazio, ma il suo apparente disincanto è fuso con una contemplazione di costola leopardiana. Guarda le costellazioni, si interroga sullo spessore dei corpi. Vuole sapere se il bicchiere è davvero mezzo pieno o solo mezzo vuoto. Il bicchiere è il calice contenente, come da archetipo, il mistero dell’universo. Quindi il libro diviene trattato sull’anima: esilarante, a tratti, per l’orgogliosa autosufficienza di questa, toccante per la fatica del corpo a strale dietro, quando i due, l’anima e il corpo, cercano, in termini assoluti, la ragione della loro esistenza. Sono i dilemmi metafisici di John Donne.
Ma Grattacaso sembra raccontarli a un gruppetto di amici per divertirli, al mare, sotto la luna. E ciò accade. A volte la poesia può farti sorridere con i suoi meravigliosi, eterni, insostituibili cosmici dilemmi.
Avvenire, 26 ottobre 2013