Avevo anticipato che sarei tornato sull’articolo di Alessandro D’Avenia, pubblicato il 25 maggio scorso sull’inserto domenicale del Corriere della Sera. Lo faccio con piacere, e con un po’ di apprensione, perché l’autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue, riferendosi alla sua esperienza di insegnante, ma forse, vista la sua giovane età, ricordando anche gli anni vissuti da studente, riflette sugli atteggiamenti e sulla pratica didattica di chi insegna, distinguendo tre categorie.
I docenti in atto sono quelli che “pongono le condizioni dell’imparare, non lo pretendono”, ma soprattutto “svincolano il sapere dalla pur necessaria prestazione e lo orientano a diventare vita”. Sono gli insegnanti che sanno che la cultura deve essere uno strumento per leggere la realtà e sono anche quelli che “non smettono di studiare, prestano libri, offrono un caffè ad uno studente in crisi, fanno lezione fuori dal programma, dedicano tempo fuori dalla lezione…”. D’Avenia conclude che “la loro classe è convivio, hanno l’autorità di chi assapora la vita e la porge”.
Ci sono poi gli indocenti, che per vari motivi (tra i più diffusi certamente la stanchezza, l’insoddisfazione e l’inadeguatezza dello stipendio) hanno competenza, ma non riescono a trasmettere il proprio sapere. L’indocente “non insegna perché non impara dai ragazzi, la sua classe si appiattisce sulla prestazione”. In questo caso, il programma e l’esame sono “l’orizzonte di autorità”. Aggiungerei che le loro indubbie conoscenze sono l’unica luce che illumina il percorso didattico, ma è una luce che a volte abbaglia, deforma le figure e porta fuori strada. L’errore più grande, in questo caso, è far credere che sia approdo quello che è solo una tappa (il compito, l’interrogazione) per verificare se si sta procedendo correttamente in un viaggio anche piuttosto lungo e complesso. I ragazzi in questo caso credono di aver raggiunto il proprio scopo ottenendo un voto che li soddisfi, si sentono inadeguati se questo non avviene. Non è così.
Infine ci sono gli indecenti, che “non conoscono ciò che insegnano e trasformano la classe, presto connivente, in chiacchierificio e poltiglia educativa”.
Se si dà per vera la conclusione di D’Avenia che di docenti “ce n’è almeno uno nella nostra vita e gli dovremmo, se non il doppio dello stipendio, almeno un grazie” (e come non pensare che “almeno uno” nella vita è un po’ poco) se ne deduce che la categoria senz’altro più numerosa è quella intermedia. Tra gli indocenti mi sembra particolarmente nutrita, o almeno in grande crescita, la sottocategoria che potremmo definire dei docenti burocrati, che ritiene che l’insegnamento possa essere risolto nella precisione con cui si aderisce alle norme e al fantomatico programma. Sono gli insegnanti, per intenderci, che credono che le prove somministrate (termine recentemente entrato prepotentemente nel gergo ministeriale; da notare che finora abbiamo creduto possibile somministrare una medicina, i sacramenti…) siano il cuore pulsante del proprio lavoro, non lo scambio quotidiano con gli alunni, che ogni uscita dall’aula, anche per il più nobile fine, sia una “perdita di tempo”, e che sia necessario attenersi rigidamente alla media dei voti ottenuti (“Fantozzi, non sei sufficiente, hai solo la media del 5,75”). Quasi sempre amati dai dirigenti, sono costantemente impauriti da possibili ricorsi e dall’atteggiamento di genitori ritenuti quasi sempre incompetenti, pronti, a loro dire, a difendere acriticamente e anche disonestamente i propri figli.
Ma cosa fare? Bisognerebbe che gli indocenti diventassero docenti. Invece la scuola premia chi si guarda dal promuovere curiosità e motivazione, se questo significa rivedere almeno in parte il ruolo di chi insegna e la propria posizione nella relazione all’interno della classe. Eppure basterebbe, per tornare alle affermazioni di D’Avenia, che la materia nelle ore di lezione venisse considerata “terreno comune di ricerca, non trincea”.