Quando veste i panni del poeta, che sono forse quelli che indossa abitualmente e dai quali gli riesce più difficile separarsi, Matteo Marchesini, che è anche narratore (il suo primo romanzo Atti mancati è stato pubblicato da Voland nel 2013) e critico (del 2014 per Quodlibet Da Pascoli a Busi, ma sono rilevanti gli interventi “militanti”, particolarmente sul Domenicale del Sole 24 ore e su Il Foglio), ama indagare il territorio interiore, a cominciare dai rapporti interpersonali e di coppia, terreno così privato e delicato da presentarsi per definizione impervio, nel caso specifico anche significativamente problematico, quando non proprio faticoso.
Ne sono dimostrazione le liriche contenute in Cronaca senza storia (edizioni Elliot, prefazione di Paolo Maccari), che raccoglie poesie scritte tra il 1999 e il 2015, con la prima sezione, che dà il titolo al libro, costituita dai testi più recenti e finora mai pubblicati in volume, la seconda che presenta una scelta di componimenti già compresi in Marcia nuziale, la precedente raccolta del 2009. Il montaggio non fornisce al lettore un’antologia di testi che trova ragione solo nella selezione operata dall’autore, ma un libro fortemente unitario, al punto che le liriche già edite sembrano trovare una loro più esatta ed eloquente posizione nel nuovo contesto.
Il carattere autobiografico della raccolta, peraltro dichiarato esplicitamente da un richiamo a Saba, è in ogni caso subito circoscritto dalla doppia perentoria affermazione che chiude la poesia introduttiva, “da adesso vivere è solo ingannare, / da adesso scrivere è solo confessare”, con cui il poeta pare si impegni a ribaltare sia il postulato che vuole realizzato uno stretto legame tra vita e letteratura, sia il principio complementare per cui è invece la letteratura a inventarsi la vita. In questo caso, se l’esistenza è inganno, all’arte dello scrivere tocca mettere a nudo le mancanze e dunque rendere esplicito quello che il vivere quotidiano vorrebbe camuffare. La poesia è insomma confessione, ma di qualcosa che, tirate le somme, tende a non manifestarsi: “Tutte le cose che ho assaggiato / senza conoscerle davvero: le riviste engagées, / il tedesco e la tecnica del calcio, / gli oratori barocchi e le ragazze / che danno il primo bacio a dieci anni / e soprattutto te, / da adesso in poi non potrò più provarle / ma soltanto archiviarle/ (…) / Vivo tempi di proroga, mio amore, / non tempi d’esperienza”.
Con l’arrivo dell’età adulta, il protagonista delle liriche si scopre incapace di affrontare la complessità dei sentimenti e delle relazioni, non sa progettare un futuro che offra una spiegazione degli atti già compiuti: “Mi chiedo a volte se in questa ignoranza / io possa mai conoscere cos’è / una patria dei corpi e delle menti / nel durare del tempo / o se mi tocchi ripetere l’inganno / breve del grande amore”.
La poesia di Marchesini nasce dalla volontà di un’autentica confessione della propria interiorità e della natura complessa dei sentimenti, ma anche dalla disposizione a risolvere gli affetti in quella che Maccari chiama “attitudine ragionativa” e che forse è attrazione verso la distrazione dai sentimenti stessi, autocertificazione della non abilità a vivere le passioni. Quella di cui il poeta scrive è “una vita passata / a invidiare la gente che vive / e non sta sul chi vive”.
Questa ossessiva tendenza a guardarsi vivere, e a scoprirsi irrisolto, si definisce in una sorta di malattia che il soggetto estende alla coppia e in genere alle relazioni affettive, nella ripetizione automatica di gesti abituali, ormai privi di senso. Non è un caso che ad apertura di volume si faccia riferimento al ritorno “di due di rame, di pietra o di legno”, dove l’esplicita citazione da Cavalcanti, e al suo sentirsi un automa in seguito alla sofferenza d’amore, sembra voglia confessare una inadeguatezza a vivere le relazioni, la condanna a concepirsi solo come manichini o fantocci, come peraltro è ribadito nei versi successivi: “Si sopravvive facili a se stessi. / Ci si regala come abiti smessi / a miserabili che hanno la nostra faccia. / E ogni gesto intorbida la traccia”.
L’esistenza finisce allora per gravare nelle giornate del soggetto che anima i versi, mimando le emozioni “così come altri imparano a memoria / le lezioni di scuola”, atterriti però dalla evenienza “che a un tratto una domanda imprevedibile / sveli la smagliatura nei cervelli”.
Marchesini è bravo a smascherare i meccanismi spesso dolorosi che sono alla fonte delle vicende affettive, senza mai lasciarsi andare a scivoloni sul terreno della confessione svenevole. L’equilibrio è reso possibile oltre che da una vigile applicazione a spiegare il mondo in termini raziocinanti e dimostrativi, in special modo quando gli eventi porterebbero in altra direzione, anche dalla solida disposizione al controllo del mezzo espressivo. La lingua poetica di cui si fa uso l’autore è saggiamente artificiosa, con l’orecchio sempre rivolto alla tradizione novecentesca, nel ricorso all’armamentario retorico e soprattutto nell’uso dominante di un endecasillabo sommesso e poco cantabile, che tende ad abbassare, secondo una lezione che arriva da Sbarbaro, il tono delle confidenze e delle penose ammissioni.
Pubblicato sul web magazine Succedeoggi