di Francesco Napoli
Nell’ampia e possibile geografia della poesia italiana anni Ottanta un lembo da riportare alla luce è quello di un certo fermento salernitano, quindi nella città di Alfonso Gatto, sempre feconda, ieri come oggi, dove sono emerse figure di un certo interesse anche grazie all’azione collettiva di Sergio Iagulli e della rivista «Percorsi ». Legato a questa iniziativa rintracciamo, a fianco di Giancarlo Cavallo, Giuseppe Grattacaso, classe 1957, esordiente nel 1982 con «Devozioni», e quindi qualche anno prima di De Signoribus, e nello stesso di Patrizia Valduga e Mariano Baino, tanto per indicare qualche riferimento cronologico. Dopo un percorso vissuto tra alterne esperienze letterarie, talvolta in sintonia con le arti figurative, Grattacaso è oggi giunto a un compiuto e maturo lavoro con «Confidenze da un luogo familiare» (Campanotto Editore, 96 pp., 10 euro). Non inganni il titolo dell’opera perché quanto raccolto non ha nulla di crepuscolare. La riflessione, dagli apparenti toni intimisti, a ben vedere si dispone su una tonalità quasi angosciata, esplorando con intensità tempo perduto e debolezza della memoria (da qui il richiamo in esergo a Sinisgalli). «Non c’è altro che poco, resta poco,/ solo un avanzo, scarto di memoria» o, altrove, «guardo indietro/ ricordo poco o nulla». Il presente dell’uomo, poi, è per il poeta una briciola della propria esistenza, schiacciato tra un «tempo che rimane», di gran lunga inferiore a quello trascorso, e una percepita sensazione di imminente finitudine.
Su questo tema, sia ben chiaro certo non originale ma qui svolto in modo esortativo verso il lettore, Grattacaso fonda una poesia ritmicamente persuasiva, in parte ben costruita su metri di ispirazione tradizionale ma non inariditi, con una tendenza epigrammatica e gnomica capace di imprimersi con nitore. Un pedale amaro fornisce il basso continuo a una poesia dove però spiccano acuti squilli autoironici («a piene mani spargo/ versi su versi, poi vado in letargo»). Non vuol essere una facile formula critica ma c’è una calda freddezza in questi versi: caldi nel sentire del poeta, freddi nel resoconto del poeta sul fare dell’uomo che «più vedo e più mi sfugge ogni costrutto».
Gazzetta di Parma, 8 agosto 2010